A
sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale con i suoi lutti e le
sue distruzioni, in un paese ed in un Europa che, nonostante la guerra fredda,
hanno vissuto il più lungo periodo di pace della loro storia è ancora
necessario e, soprattutto ha ancora senso
CANTARE LA GUERRA?
di
Paolo Pietrobon
Parte
seconda
(parte
prima clicca qui)
Ma
si tratta di un tema non agevole: come possono coesistere guerra e canto? ed è
credibile il cantare la guerra a partire da un’ispirazione popolare? e
come può il canto della guerra rispettare la libertà e la levità della
creazione artistica?
E’
stato detto autorevolmente che la guerra non è generatrice di canti, mai li ha
generati; che le canzoni degli alpini sono state musicate nelle città e per le
produzioni discografiche (chi non ricorda i mitici Odeon!); che “ c’è
voluto un emiliano come l’amico Carlo Geminiani per scrivere canzoni di guerra
così “ortodosse” e popolari da diventare classici ...”(1).
Avrò
modo di tornare su questo aspetto cruciale di un’ analisi che verta sulla
canzone di guerra, ma da subito voglio togliere di mezzo alcuni pregiudizi che
potrebbero limitare il nostro discorrerne in termini di contenuti e valori
poetici. Per cominciare: “ Parlare di singole canzoni non ha senso.
Esistono pochi modelli a disposizione, e un’infinità di varianti ...
prendiamo l’inno: ne esistono di innumerevoli, repubblicani, socialisti,
anarchici, fascisti ... cattolici, ma i modelli musicali non cambiano ... La
musica militare poi è sempre quella, dal Settecento ad oggi... per l’Italia
pensa a ‘Fischia il vento’ o a ‘Morti di Reggio Emilia’...”(2).
Quindi
nessuna canzone è un assoluto immodificabile, tantomeno in ciò che
chiamiamo ‘ispirazione popolare’, anzi strutture e moduli tendono a
ripetersi prevalentemente, prestandosi a differenti e talora divergenti
contesti, ad esempio consentendo, nel nostro caso, all’inventore di trincea
di trasferire le proprie emozioni, anche le più terribili, a melodie ereditate
da ben altre esperienze, e con ciò dando voce e canto al sentimento di guerra
pur in assenza di una creazione originale.
Sentite
su questo punto Primo Levi (sì, l’autore di ‘Se questo è un uomo’),
richiesto di un commento dopo l’ascolto dell’inno nazista: (Il nome
ufficiale di questa marcia era ‘Die Fahne Koch’, “La bandiera in
alto”); tra l’altro non è brutta, è una bellissima marcia ... e questo
è istruttivo... alla mia generazione, questa musica fa drizzare i capelli sul
capo, non così per i fruitori dell’epoca. Questo gap, questa spaccatura che
c’è tra il livello musicale, il livello artistico di un pezzo ... l’effetto
di trascinamento che può provocare, e il modo con cui viene fruito da un
pubblico e da un altro pubblico, mi sembra estremamente istruttivo ”(3).
Né
mancano sottolineature convincenti sulla frequente indipendenza tra la
musica, anche “cattiva”, e ciò che, per suo tramite, chiunque può
trattenere per sè: “Odiate la musica cattiva, non disprezzatela.
Siccome si suona e si canta molto più
appassionatamente di quella buona, a poco a poco si è riempita del sogno e
delle lagrime degli uomini ... .Il suo posto, nullo nella storia dell’arte, è
immenso nella storia sentimentale della società ... .Il popolo, la borghesia,
l’aristocrazia, come hanno gli stessi portalettere per portare il lutto o la
felicità, hanno gli stessi invisibili messaggeri d’amore, gli stessi amanti
confidenti: i cattivi musicisti. Il pessimo ritornello che qualsiasi orecchio
fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto il tesoro di migliaia di
anime, conserva il segreto di migliaia di vite di cui fu l’ispirazione, la
consolazione, la grazia e l’idea...”(4).
Il
che altro non è se non l’arcano su cui molto si discute in ambito artistico e
sociale: c’è una musica “bella” contrapponibile ad un’altra
“brutta”? Credo di sì, ovviamente per certuni criteri rispetto ad altri: in
ogni caso, possono coesistere una musica “brutta” (o non coeva agli
eventi cui si riferisce) ed un’emozione popolare diffusa che, per essa,
attinge a valori umani importanti.
Ma
avviciniamoci al carattere particolare della ‘canzone di guerra’: “ Dopo
il 1650, gli eserciti mercenari furono sostituiti dagli eserciti nazionali,
comprendenti sia coscritti sia volontari, e i soldati non impegnati nelle
campagne (militari - ndr) vennero confinati nelle caserme ... odiati,
temuti - ed ammirati - dai civili, è facile vedere come i soldati dessero vita
a una subcultura: gli uomini venivano sradicati dalla loro cultura locale, il
reggimento, inoltre, era un’istituzione ‘totale’... i soldati avevano il
loro gergo e le loro canzoni da intonare durante le marce, canzoni di battaglia,
d’addio, d’arruolamento (come i ‘verbunkos’ dell’impero asburgico), di
smobilitazione ...”(5).
Appare
così uno dei limiti della ‘canzone militare’, la circoscrizione ad un
ambito molto settoriale, ma anche una prospettiva meno drastica di quella di De
Marzi: ‘nella guerra’ il soldato ha cantato, talora ha inventato canzoni,
come vedremo, o semplici motivi, più spesso servendosi di fraseggi e melodie
preesistenti, cosa facile se si pensa al drammatico, estesissimo crogiuolo di
uomini, età, linguaggi regionali e consuetudini affettive e sociali che le
guerre inducono sempre, e soprattutto indussero nel passato, la Grande Guerra più
di tutte, allorché scaraventano in una coesistenza greve moltitudini di persone
altrimenti ignari gli uni degli altri.
Anche salti radicali di contesto sono possibili e documentabili per le prospettive che andiamo analizzando, come appare dagli estratti seguenti. Scrive M.Fincardi: “Anche il motivetto più innocente può diventare una sfida all’ ordine costituito ... nel Viadanese, le donne che nel 1983 picchettano gli argini dell’Oglio per impedire la costruzione di una centrale nucleare cantano ‘Quel mazzolin di fiori’ prima di venire caricate dalla celere ... (ed un) un pretore trovò il motivo per far eseguire arresti e denunce ... un coro può facilmente diventare una minaccia all’ordine, per il solo fatto di essere un’adunanza di individui uniti da qualcosa, che si fanno sentire ...(6); e C.Sereni “una canzone assume significato dal contesto nel quale viene cantata, suonata o ascoltata ...”(7); Piero Brunello, infine, riferisce sulla modalità, di indubbio interesse, anche metodologico, con la quale tale Alessandro Portelli registra nel 1972 un motivo antimilitarista risalente alla Grande Guerra, ‘O Gorizia tu sei maledetta’: “ Ci troviamo di fronte a un esempio minimo di ‘teatro di strada’; seduto sul marciapiede, in attesa che finisca la messa solenne per cominciare a suonare nella banda in processione, Giovanni Ceppa detto Ceppetella (75 anni), trascinato dal gusto di raccontare, improvvisa ... una vera e propria esibizione da cantastorie, montando spontaneamente le canzoni apprese durante la guerra con ricordi e spiegazioni ...”(8).
Quale
sintesi possiamo ricavare a conclusione di una inevitabilmente lunga premessa?
Sicuramente
la scelta, tutta culturale, di mantenere una consapevole riserva o, se si vuole,
un preconcetto, l’unico che io ritengo ammissibile e necessario: esso nega
valore di “natura popolare” e di “originalità poetica”, a quella canzone
di guerra, ma ad ogni altra produzione artistica, cui da qualsiasi potere
siano affidate o imposte funzioni politiche di condizionamento o captazione
della suggestione popolare per finalità non esplicite e quindi lesive della
libertà individuale di interpretazione e giudizio sull’oggetto artistico
stesso.
Vediamone
alcuni riferimenti di grande significato, collegati ad una vicenda emblematica
dell’Italia Giolittiana: “La guerra di Libia fu accompagnata in Italia da
un ‘trionfo di retorica che non conosce precedenti’. Il consenso fu molto
ampio, coinvolse la chiesa cattolica e una parte del socialismo ... Poeti
e letterati esaltarono il soldato italiano ‘buono e generoso, per sua natura
eroe e poeta, per nulla superbo e crudele’. In un discorso alla Camera del
Febbraio 1912, Giolitti giustificò la guerra come guerra coloniale e quindi
guerra di civiltà ... un ruolo importante ebbe la canzone ‘Tripoli
bel suol d’amore’ che Ennio Flaiano definisce ‘il
prototipo delle canzonette di mobilitazione’... (anche) l’opposizione
alla guerra si espresse, tra gli altri modi, nella parodia: ‘Tripoli, suol del
dolore/ti giunga in pianto questa mia canzon/Sventoli il tricolore/mentre si
muore al rombo del cannon ”(9).
Ma,
allora, dove sta il fulcro dell’emozione (e della riflessione responsabile)
che la canzone di guerra può tuttora indurre in chi in ciò ritrovi il senso
di una storia vissuta o, ancor giovane, avverta segni ed echi di un vissuto
lontano da sè, anche se presente in tante situazioni d’un mondo sempre più
piccolo e sempre “vicino”? Dal mio angolo di osservazione esso può
trovare posto anche nel racconto che canta la guerra, se quel canto è
spontaneo e libero (nel frammento popolare) o comunque (nel brano d’autore)
trova sintonia emozionale e musicale con il risentimento interiore cui facevo
riferimento e che, fuori da pretese ideologiche o belliciste “superiori”,
senza ambiguità chiede ed attende la pace e l’amicizia tra i popoli, il
rispetto della vita e dell’umana convivenza.
Dall’Epica
classica a quella cavalleresca, dalla canzonetta militare dei nuovi eserciti
nazionali d’Europa alla canzone alpina, o antimilitarista, o patriottica, o
pacifista, il canto DI guerra e DELLA guerra ha
innegabilmente accompagnato
vicende
storiche importanti, e non solo quelle dei “grandi”, ha eccitato o
consolato, celebrato o compianto, declamato per passione o follia, meditato per
emozioni violente e per compassione, osannato o deprecato: non è tutto ciò
materiale significativo della vicenda umana universale? non è tutto ciò
documento ed ammonimento? non è materia moralmente impegnativa per chiunque
cerchi, e privilegi, nella vicenda storica e nella
trascrizione testimoniale di essa operata (anche) dal canto,
il senso ed il valore dell’essere umani e dell’essere tra
umani in un unico percorso storico e spirituale, valoriale?
Evidentemente
a condizione che non si pieghi la canzone ( ma la storia, la letteratura, la
cronaca), come detto, a pretese ed incontinenze autoritarie, dispotiche,
devianti, per interesse o per razzismo, o per altro.
Allora, come mi proverò a fare in un prossimo intervento, anche la canzone di guerra può, come ogni altro oggetto di ricerca e godimento artistico, essere considerata, oltreché momento di memoria, socialità, condivisione, compiacenza artistica (per chi ne è autore od esecutore, come per chi porta i panni dell’appassionato o del ricercatore), giacimento culturale in sè, documento da avvicinare con attenzione, sapendo e volendo per esso scoprire come possa avvenire che simili impegnative testimonianze, per il testo letterario o per la partitura musicale, sappiano restituire buoni sentimenti, insegnamenti e moniti salutari, espressioni di valore poetico e comunicativo; facciano comprendere le verità e le falsità delle guerre; aiutino a non rifare errori disumani e crudelissimi che ogni guerra semina senza risparmio né pietà.
Note
(1)
Bepi De Marzi, citazioni e frammenti tratti e montati da Roberto
Beretta per “Avvenire on line” da una lezione svolta dal musicista alla
Cattolica di Milano, Avvenire 1/5/2005.
(2)
Piero Brunello, “Storia e canzoni in Italia: il Novecento”, in
seguito “Bru.Nove.”, Ed. Comune di Venezia 2000 per gli Itinerari
Educativi, pag. 7.
(3)
Filippo Benfante, intervista radiofonica a Primo Levi, in “Bru.Nove.”,
pag. 9.
(4)
M.Proust, “Elogio della cattiva musica”, citato in “Bru.Nove.”,
pagg. 10/11.
(5)
P.Burke, “Cultura popolare nell’Europa moderna”, in “Bru.Nove.”,
pag. 11.
(6)
M.Fincardi, “Primo Maggio reggiano...”, in “Bru.Nove.” pag. 12.
(7)
C.Sereni, “Il gioco dei regni”, in “Bru.Nove.”, pag. 12.
(8)
A.Portelli, dal libretto del disco “La Sabina, una caratteristica
area di transizione”, in “Bru.Nove.”, pag. 11/12.
(9)
Del Boca, G.Candeloro, E.Flaiano, titoli vari, in “Bru.Nove.”,
pagg. 58/59.