“SAGGIO SUL CANTO POPOLARE”

dalla Prefazione al ”Canzoniere” del Coro Monte Cauriol di Genova del 1968

Con piacere pubblichiamo questo “saggio” tratto dal “Canzoniere” del Coro Monte Cauriol di Genova anche perché, pur se datato, tratta di argomenti dei quali si dibatte, nel nostro “mondo corale” anche oggi e, per questo, riteniamo possa essere di particolare interesse per i nostri lettori.

Cogliamo l’occasione per ringraziare gli amici del “Monte Cauriol” che ci hanno autorizzato alla pubblicazione.

 

L’interesse per le manifestazioni più genuine e popolari di espressione, sia nel campo della musica come in quello delle altre arti, è fenomeno relativamente recente, ed è stato ritenuto una sorta di reazione naturale agli eccessi del post-romanticismo e del decadentismo. E’ certo comunque che per molto tempo l’espressione popolare è stata considerata materia vile e priva di interesse artistico, mentre oggi siamo nel pieno di un processo di rivalutazione e valorizzazione, a volte incontrollato, di ogni manifestazione incolta d’arte.

     Probabilmente la povertà di contenuto umano e l’artificiosità delle forme di certa arte “ufficiale” hanno contribuito a suscitare, a poco a poco, quell’interesse ora tanto vivo per l’espressione popolare, anche se rudimentale. Specialisti di ogni paese si sono dedicati a ricerche sull’arte primitiva e, nel campo della musica, in particolare, si sono approfonditi gli studi sul folklore.

     Una delle materie che fino ad anni recenti sono state tenute in poco onore nel nostro paese è proprio quella che qui ci interessa: il canto popolare. In verità, una ricerca sulle origini, le fonti, le modificazioni, la diffusione del canto popolare si è presentata e si presenta molto difficile proprio in conseguenza di quel completo disinteresse che le generazioni passate hanno mostrato, e che ha lasciato un vuoto pressoché assoluto di documentazione. Solo al tardo Ottocento risalgono le prime opere in argomento, e in epoca anteriore – con l’eccezione di qualche documento isolato – troviamo il vuoto più scoraggiante.

     Questa situazione vale però per l’Italia e non può essere generalizzata. Altri paesi, per diverse condizioni storiche o culturali, vantano una tradizione di musica popolare e corale invidiabile (per esempio la Germania, grazie soprattutto all’opera di Martin Lutero, che nel Secolo XVI codificò tutta la musica popolare profana, “strumentalizzandola”, come si direbbe oggi, per fini religiosi e propagandistici).

     Chi vuole dunque chiedersi donde vengano e come si siano formate le canzoni popolari oggi così note, e non si accontenta di ipotesi, ma pretende documenti, si trova di fronte a difficoltà ardue. Il primo motivo, abbiamo visto, è la grave carenza di documentazione. Il secondo è dato dall’intricato processo sempre mobile (da qualcuno paragonato alla vita organica del mondo biologico) di modificazioni, fusioni, alterazioni, trasformazioni a volte anche radicali che questi canti hanno subito nel tempo, attraverso la trasmissione orale e l’adattamento a gruppi etnici diversi. E’ materia oggi indubbiamente appassionante per musicologi, filologi, etnologi che hanno autorevolmente studiato ogni ingranaggio di questo complesso meccanismo, individuandone e codificandone le leggi vitali.

     Per esempio, si è considerato che l’anonimato degli autori è un fatto contingente, non creativo, ma storico: e cioè si ritiene che ogni canto popolare sia opera, all’inizio, di un autore ben preciso, ignoto oggi non già perché tanto umile da non meritare considerazione, ma solo perché il costume dell’epoca anteriore al romanticismo non attribuiva alcuna importanza all’opera creativa dell’individuo, e tanto meno in materia di musica profana. Si tende cioè a credere che ben difficilmente un tema melodico o un testo compiuto nascano, nuovi e originali, per generazione spontanea. Salve, naturalmente, le debite eccezioni. Si vedrà infatti che molte delle canzoni ritenute parto genuino del popolo incolto o dei soldati non sono che rielaborazioni, suggerite dai casi della vita e della guerra, di vecchie arie tradizionali pressoché ignote o dimenticate.

     Non vogliamo però entrare nel campo, teatro delle dispute degli studiosi cui prima accennavamo, delle cosiddette “modificazioni” attraverso le quali i canti popolari ci sono giunti. Sono stati analizzati i diversi processi (deterioramento, contaminazione, elevazione, degradazione, adattamento, giustapposizione, amalgama, fusione) attraverso i quali melodie medievali o anteriori si sono diffuse da regione a regione e tramandate (magari spezzate innovate rielaborate fino ad essere totalmente diverse e irriconoscibili). Lasciamo ben volentieri l’argomento agli specialisti. Qui vogliamo solo richiamare per sommi capi i motivi che rendono così problematico il cammino a ritroso verso le fonti prime delle nostre canzoni.

     La diffusione di un canto, attraverso gli scambi lunghi e difficili di un tempo (commerci, dominazioni, guerre, migrazioni) dava sempre e inevitabilmente luogo ad un processo di adattamento alle caratteristiche etnofoniche della regione o del paese importatore: la linea melodica si piegava al temperamento degli indigeni, ora vivace, ora incline alla mestizia o alla solennità; le parole si adeguavano al diverso dialetto deformandosi, spezzandosi; le rime originali cedevano il passo ad assonanze, o le assonanze primitive venivano nobilitate in rime; e così via, finché la vecchia melodia arrivata da chissà dove finiva con l’assumere carattere nuovo e autonomo. Si aggiungano a ciò il logorio e le modificazioni prodotte dall’opera del singolo, per la inevitabile approssimazione della trasmissione orale: parole e strofe dimenticate, ed altre nate a sostituirle, magari sullo spunto di fatti di cronaca o sotto l’urgenza di sentimenti diversi.  

     Non bisogna infatti dimenticare che solo recentemente, in virtù dell’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione e informazione, si è creata la possibilità di un diverso e più fedele modo di scambio, che favorisce l’amalgama di diversi gruppi etnici e contribuisce a ridurre o eliminare le differenziazioni regionali.

     Ciò spiega come si trovi riscontro in regioni lontanissime tra loro e di diversi paesi, tra canti simili, differenziati nella forma ma sostanzialmente ispirati allo stesso tema e di ascendenza comune più o meno palese. In questa stessa raccolta potrete trovare esempi chiari di questa corrispondenza. Citiamo anche i casi esemplari e noti de “La pastora”, di “Quel mazzolin di fiori” e di “C’erano tre sorelle”, di cui in ogni regione d’Italia si trovano lezioni differenziate proprio per effetto del condizionamento etnofonico.

     Il denominatore comune che ha consentito a tanti canti di diffondersi dalla contrada natìa ad altre genti e paesi, e di conservare fino ad oggi una validità, è costituito indubbiamente dalla universalità dei sentimenti espressi, al di là e al di sopra dei fatti di cronaca da cui essi hanno tratto spunto così sovente. Il lavoro del tempo, impietoso giudice, ha pazientemente provveduto ad eliminare le scorie e le sovrastrutture legate alla moda contingente o al gusto di un’epoca, conservandoci linee melodiche che traggono valore da una scarnita semplicità, e versi di efficace essenzialità poetica.

     Si pensi all’esempio mirabile di “Là daré d’ côla môntagna”. La canzone nacque da un fatto di cronaca oggi totalmente privo di interesse, di cui fu protagonista “un paysan pris e pendu à Montbrison pour rébellion contre le fisc et la gabelle du Roi Philippe le Bel”. Il fatto è ovviamente dimenticato, ma i sentimenti umanissimi e universali espressi hanno consentito alla canzone, pur attraverso marcate modificazioni, di sopravvivere alla cronaca del tredicesimo secolo e di giungere, apprezzata, fino a noi.

     Tutto ciò è valido per il canto popolare genericamente considerato, ma ciò che interessa noi più da vicino è il “canto della montagna”, che negli anni dal 1930 circa ad oggi ha conosciuto una diffusione progressiva veramente straordinaria, ed è stato apprezzato non solo da un pubblico sempre più folto, ma da musicisti di gusto sicuro e di gran nome.

     Vi sono stati diversi tentativi di accertare più precisamente le origini dei “canti della montagna” distinguendoli da quelli genericamente definiti “popolari”. Si è cercato cioè di stabilire se gli abitanti delle nostre montagne avessero, e da quanto tempo, un loro modo particolare di esprimersi in canto, dal carattere ben definito e autonomo, ma la prima notizia di una individuazione esplicita del canto “montanaro” da parte dei musicisti risale a non oltre la seconda metà del secolo scorso (sec. XIX, ndr). Diligenti ricerche sono state compiute sugli scambi, che oggi diremmo “culturali”, operati dai trovatori dai mercanti dai soldati attraverso le vallate di confine, segnatamente con la Francia (ed è curioso constatare come molti tra i canti piemontesi più noti abbiano oltr’alpe un preciso corrispondente). Si sono studiati i grandi movimenti di trasmigrazione di interi gruppi etnici (Vallesi, Valdesi) che hanno lasciato tracce non indifferenti nel patrimonio dei canti popolari “di montagna”. In particolare ai Valdesi, che formarono (per necessità di difesa e sopravvivenza prima, e per reclutamento nell’Esercito Sardo poi) le prime “truppe alpine”, viene riconosciuto il merito di aver dato vita ad alcuni tra i più antichi canti di montagna.

     L’esempio forse più cospicuo delle modificazioni attraverso le quali un canto popolare ci è giunto, dalla sua lontanissima origine, divenendo oggi uno dei più noti canti di montagna (e più precisamente degli Alpini), è dato senza dubbio da “Il testamento del Capitano”. E’ ormai acquisito che la canzone nacque nel 1528 col titolo “Testamento del Marchese di Saluzzo”, in occasione della morte del Marchese Michele Antonio di Saluzzo, capitano generale delle armi francesi nel Regno di Napoli, e sullo spunto delle singolari disposizioni testamentarie lasciate dal nobiluomo. La versione originale della canzone venne pubblicata per la prima volta da Costantino Nigra nel 1888. Attraverso oscure vie il canto aveva intanto attecchito nel Trentino e nel Veneto con diversi titoli (“Il Capitano della Salute”, “Il Capitano della Marina”), così che nel 1886 il colonnello garibaldino N. Bolognini, ignorando il vero iter del “Testamento” ne pubblicò una versione grottesca, ritenuta originale del Trentino, nell’Annuario della Società Alpinisti Tridentini. Ma la canzone non godrebbe dell’attuale notorietà se durante la Grande Guerra gli Alpini non se ne fossero impossessati adattandola ai loro casi, e se ancora nel corso dell’ultimo conflitto non fosse stata ripresa dai soldati. Attraverso i successivi adattamenti, ai poveri resti del Capitano furono attribuite le più disparate destinazioni (per esempio: “Un part mandèla an Franza” divenuta poi volta a volta: “La prima parte al Re di Francia”, “Il primo pezzo al Re d’Italia” e ancora “Il primo pezzo alla mia Patria”.

     Come si vede, infinite sono le vie per le quali i “canti della montagna” si sono formati e ci sono giunti. E’ un fatto però, che oggi i “canti della montagna” (e a questi accomuniamo senza distinzione i canti degli Alpini e quelli dei soldati) sono ben individuabili e distinguibili dal generico canto popolare per certe loro caratteristiche peculiari, che li rendono un “genere” ben preciso.

     La formazione e l’acquisizione di questi autonomi caratteri è facilmente individuabile, trattandosi di un fenomeno ancora recente, dovuto in larghissima misura al concorso di due fattori: l’esempio di un coro, quello della Società Alpinisti Tridentini, ammirato e apprezzato unanimemente da pubblico e critica, che per primo adottò “armonizzazioni”, elaborate da musicisti famosi; e la facilità di diffusione della musica portata dalla radio e dalle incisioni discografiche.

     Le armonizzazioni valorizzarono con gusto moderno quel senso di coralità tradizionalmente presente nei nostri canti popolari, anche se sovente espresso solo da un “controcanto” rudimentale articolato sull’intervallo di terza e da una improvvisazione armonica su schemi semplici e tradizionali. Le stesse armonizzazioni per coro maschile “a cappella”, in virtù dei loro intrinseci pregi, consentirono ai canti popolari (altrimenti destinati a non uscire dalla vallate natìe, o a perdersi senza memoria), a questa materia così negletta, l’ingresso nel mondo della musica e ottennero riconoscimenti lusinghieri (le prime armonizzazioni di Antonio Pedrotti furono definite già nel 1938 dall’insigne musicologo Alois Mooser “modelli del genere”).

     E veramente furono modelli per tanti e tanti cori nati sull’esempio del primo, che impararono così a conoscere, e poi ad amare e diffondere, le ricchezze di un tesoro di musica e poesia uscito dall’ombra.

     Con la diffusione di questo patrimonio si è andato creando un gusto, uno stile del canto di montagna: struttura armonica e omofonica delle elaborazioni corali, derivata direttamente dall’originale e rudimentale modo di espressione popolaresca; voci virili (con eccezioni legate alle tradizioni folkloristiche locali) non “impostate”; ricerca della massima fusione armonica e omogeneità timbrica; rispetto dei caratteri genuini dei canti; rifiuto di ogni accompagnamento strumentale, di “effetti” artificiosi, di “vibrati” solistici, di compiacimenti formali. Sono regole ormai valide per la gran maggioranza dei cori (pare siano oggi tremila, in Italia) onde si può veramente parlare dei “canti della montagna” come di un genere ben definito.

     C’è da chiedersi quale sorte avrebbero avuto i canti popolari se non fossero stati vivificati da questa nuova veste, pure a volte criticata come sovrastruttura artificiosa. Con il venir meno, ad opera della radio, del cinema, e di altre diavolerie, delle condizioni necessarie alla loro spontanea sopravvivenza, sarebbero probabilmente divenuti polveroso materiale d’archivio per le ricerche dei musicologi e degli etnologi. Invece, proprio in virtù delle armonizzazioni (e per mezzo dei moderni strumenti di diffusione), in questa veste nuova ma fedele e aderente allo spirito che li ha creati e all’ambiente in cui sono nati, i canti alpini hanno conquistato un loro pubblico sempre crescente, che in essi ritrova i sentimenti di giorni sereni o esaltanti, che per mezzo di essi impara a conoscere la misteriosa suggestione della montagna.

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