Vi racconto un Canto
di Sergio Piovesan
La CiaraStela
Semo
qua co 'na gran stela par 'dorare Maria e Gesù par portare la novèla che xe nato el Redentor! |
Camminando giorno e notte come fresca xe la stagion par i boschi e par le grotte senza vedar la procession. |
Arivai alla capanna Madre Maria se lamentò la ghe dixe al so amato sposo: "mì 'so stanca de caminar!"!. |
Co' fu stata mesa note Madre Maria si risvegliò si svegliò con gran splendore: jèra nato el Salvator!. |
I pastori fasea alegria al Divino Salvator i cantava in "acèsis Dei" i cantava de vero cuor!. |
Nel
mondo agricolo sono esistiti, da sempre, dei momenti rituali ciclici che si
svolgevano nello scorrere del calendario e legati alla successione degli eventi
naturali; con l'avvento del cristianesimo è lo svolgersi della vita di Cristo a
sovrapporsi.
Si
tratta quindi di momenti rituali che iniziano con il solstizio d'inverno -ed è
quello che al momento c'interessa- per proseguire con gli altri riti del resto
dell'anno.
Uno
di questi riti era il canto della "Chiarastella",
di origini antichissime, che veniva eseguito per la questua di fine anno nelle
campagne venete, ma che si ritrova in tutt'Italia e propagato, poi, anche
altrove.
I
protagonisti erano, in genere, persone adulte che, solo successivamente, furono
sostituiti da bambini e ragazzetti.
I
versi del canto erano ispirati al Natale, dal viaggio di Maria e Giuseppe verso
Betlemme alla nascita ed all'Epifania, con il contorno di angeli, pastori,
comete e magi.
Non
si tratta, però, di un unico canto, ma di "edizioni"
diverse, nei tempi, nello spazio e nel linguaggio, dovute ad interpretazioni dei
testi sacri, magari storpiati, creando, così, dei lemmi che oggi ci sembrano
incomprensibili, con differenziazioni sensibili da una borgata ad un'altra.
Cosa
sia poi la "chiarastella", o "ciarastela",
anche questo dà adito ad interpretazioni diverse in quanto c'è chi la
individua nella stella cometa e chi, invece, nella stella costruita con listelli
di legno e carta, con all'interno una candela, ed issata su un'asta alla testa
del gruppo di questuanti.
L'edizione
che esegue il "Marmolada" è quella raccolta ed armonizzata da Gianni
Malatesta, un'edizione padovana, che inizia con "Semo
qui co 'na gran stela" indicando
nella seconda interpretazione quale sia la stella; continua, quindi, con il
perché siano lì, cioè
"... per doràre Maria e Gesù,
per
portare la novèla
che
xé nato el Redentor".
Le
strofe di questa edizione sono ben otto e, musicalmente, tutte uguali; per
questo motivo, il Coro Marmolada ne esegue solo alcune ritenute più
significative, ed anche indispensabili, nel contesto del racconto della Natività.
(vedi testo in nota) [1]
La
seconda strofa vuole raccontare il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme,
fra boschi e grotte in una stagione invernale.
Si
arriva quindi alla nascita del Salvatore e, nell'ultima strofa, si vede, come
appare in molti dipinti, l'adorazione dei pastori con gioia ("...
i faxéa alegria ...") cantando "Gloria
in excelsis Dei" che, nel canto popolare, viene storpiato in "...
in acésis Dei".
Il
canto della "Ciarastela", come si diceva prima, era espressione del
mondo contadino e, quindi, non conosciuto e non cantato nel mondo cittadino, se
non negli ultimi decenni come espressione corale e di ripresa delle tradizioni.
Per questo motivo, il sottoscritto, vissuto sempre a Venezia, non ha esperienze
di questa tradizione e, pertanto, vi rimanda nella pagina accanto all'articolo
di Giovanni Lucio, cavarzerano, che ricorda la "Ciarastela" della sua
giovinezza.
NOTE
[1]
Il
testo de “La Ciara stela” armonizzata da Gianni Malatesta
nell’interpretazione del Coro Marmolada
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La
“Ciara stéa”: ricordi ed emozioni
Giovanni
Lucio
I
ricordi del canto della Ciara stela sono, per ragioni anagrafiche, un po'
lontani nel tempo, un po' sbiaditi come si dice, tuttavia non del tutto
annullati e recu- perabili, magari a frammenti, nel vasto
prato della nostalgia del passato dove tutto ci sembra essere stato
migliore, più bello ed invece è solo perché quel luo- go, quel tempo si
chiama giovinezza (non quella che volevano ricantare al prossimo festival della
canzone di San Remo).
Allora:
la costruzione della stella.
Per
prima cosa bisognava procurare dei listelli di buon legno da consegnare a chi,
provvisto anche dei necessari at- trezzi, fosse in grado di costruirne il telaio
a cinque punte.
Non
era impresa da poco perché dove- va essere abbastanza grande ma legge- ra, in
quanto la si portava in giro per le strade fissata su di un asse verticale per
almeno un paio d'ore ogni sera e per una decina di sere, ma allo stesso tem- po
doveva essere robusta e fatta ad ar- te specialmente nella zona centrale do- ve
convergono le basi dei triangoli delle cinque punte e dove le pareti dovevano
avere fra di loro una precisa distanza perché
lì all'interno si collocava poi il supporto per il cero che doveva illumi- nare
la stella.
Anche
se, a dire il vero, negli ultimi tem- pi il cero era stato sostituito da una
tor- cia a batterie collegata con un filo ad un interruttore (un pereto) che
teneva in tasca chi portava la stella; così non si rischiava più che le pareti
di carta bru- ciassero o che la cera del grosso lumino colasse a forarla e,
peraltro, la si accen- deva solo quando si raggiungeva l'abita- zione dove ci si
fermava a cantare.
La
carta era rigorosamente di colore rosso ed era “carta veina”, che si com-
prava, partecipando al costo in parti uguali, in quantità superiore allo
stretto necessario perché poteva comunque accadere che si bruciasse o
strappasse e perché con quella che rimaneva dopo il periodo natalizio, qualcuno
si costrui- va, in primavera, l'aquilone (el bacaeà) da liberare nel cielo al
primo spirare di brezza.
Ovviamente
la colla necessaria a fissa- re fra loro i vari ritagli di carta e la stes- sa
sul telaio assieme a qualche “bro- cheta” (puntina da disegno), la colla,
era fatta con “fiore” (farina doppio zero) e acqua.
In
possesso della stella, ci si incontrava in quattro-cinque non appena faceva buio
e si valutava dove andare, evitando la zona centrale del paese dove abita- vano
le famiglie più benestanti ma con tendenza a snobbare i cantori della “Ciara
stéa”, nelle borgate, da raggiun- gere camminando su strade bianche e prive
di illuminazione, dove vivevano i meno abbienti ma più sensibili e generosi.
Bisognava
inoltre tener conto di dove andavano o erano già andati altri gruppi con la
loro ciara stéa.
Era
quindi anche una questione di con- correnza.
E
bisognava saper “toccare” l'animo, la sensibilità di chi ci ascoltava,
ovvia- mente in funzione di ciò che alla fine ne avremmo ricavato; spesso
niente ...
E
allora, ricordo, qualche sera il gruppo si
arricchiva di un suonatore dilettante di spineta (armonica a bocca) o di fisar-
monica.
Il
testo e l'armonia del canto variavano in funzione della zona del paese dove si
andava.
Mi
spiego: Cavarzere, dove ho vissuto la mia gioventù, è al limite della provin-
cia di Venezia e confina con le provin- cie di Rovigo e Padova.
A
volte quindi si cantava pure noi la versione padovana, quella riproposta dal
maestro Malatesta col suo coro “Tre Pini” ed ora entrata a far parte anche
del repertorio del “Marmolada”.
Non
ricordo la versione rodigina.
Ricordo
però che, specialmente nella versione cavarzerana della “ciara stéa”
(per noi non ciara stela) e forse più che in quella padovana, le parole
appari- vano storpiate ed i versi sgangherati, anche se non privi di nesso
logico.
Eccone
la dimostrazione, questo canta- vamo:
“E'
la note di Natale,
una
messa vorei cantar.
Canta
canta rosa in fiore,
che
xe nato el nostro Signor.
El
xe nato in una stala,
fra
il bue e l'asinel.
La
pareva na gran sala,
preparata
par se e par lù.
Poverella
in questa cà,
ghe
domando la carità. (due
volte)
Non
c'è pani non c'è fuoco,
non
c'è fuoco per riscaldar.
La
sua mama poverella,
non
sapeva più cosa far.
La
si leva il velo in testa
per
poterlo ricoprir.
La
pareva na gran festa
preparata
par se par lù.
Poverella
ecc.
E
si cantava spesso a squarciagola per farci sentire da chi se ne stava rinchiuso
in casa e magari già a letto (non c'era la televisione), e per superare nelle
borgate di periferia l'abbaiare dei cani.
Alla
fine, senza più voce, piedi e mani in- dolenziti dal freddo si tornava a casa.
Assieme
a tanti “grassie putei, bone fe- ste anca a voialtri”, poteva anche acca-
dere che ci si dividevano poche lire.
Ma
ci venivano offerte pure delle salsic- cie, dei “museti” (cotechini) -
qualcuno nelle frazioni aveva da poco tempo “copà el porseo” (ucciso il
maiale per uso do- mestico) - e del vino e magari qualche bossolà di pane cotto
nel forno a legna. Queste cose le mettevamo in una sporta di paglia per portarle
poi a casa di qual- cuno del gruppo, in custodia dei suoi genitori fino alla
fine dell'anno quando ci si riuniva per una cena in attesa del nuovo anno.
Poi
tutto è cambiato, velocemente.
E'
arrivato il benessere. E se ne sono andati i presepi dalle case sostituiti dagli
alberi di Natale, il canto della ciara stéa nelle strade sostituita da “Tu
scendi dalle stelle”, “Bianco Natale” e altre cante note in tutto il mondo
e tutte cantate in chiesa, al riparo dal
freddo, magari a più voci, magari pure a voci miste: maschi e femmine, con un
pubblico silenzioso, pervaso di mistica attenzione.
Ma
l'assenza delle voci della ciara stéa nelle strade del paese e delle borgate
spogliava il tempo del Natale, almeno per me, di gran parte dell'emozione e
della sacralità della ricorrenza di un grande avvenimento.
E'
vero che si cantava per ricevere delle offerte, ma il canto era
“partecipato”, perché cantavamo la nostra condizione umana.
Anche
noi avevamo poco da mangiare, le case male o affatto riscaldate e avevamo poco
di che vestirci.
Allora,
nessun rimpianto, ovviamente, dello stato di indigenza, solo la nostalgia di
un'atmosfera del tutto particolare, forse solo nostalgia della giovinezza,
certamente del canto della ciara stéa.
Attorno
agli anni settanta però, il canto della ciara stela l'ho ritrovato a Caz- zago,
frazione del comune di Pianiga (VE), dove mi ero trasferito con la fami- glia e
dove un gruppo di parrocchiani ancora lo ripropone ogni anno di via in via
reggendo, ahimè, una stella di poli- stirolo rivestita di carta argentata e
raccogliendo offerte in denaro per le necessità della parrocchia e offerte di
altro genere consumate poi in una cena
conviviale.
Ho
fatto parte del gruppo (prima che la stella diventasse di polistirolo) e, anche
se versi e melodia non erano quelli della ciara stéa cavarzerana, quella che
can- tavo da ragazzo, ho rivissuto passate sensazioni, vecchie emozioni.
Che
rivivo ora più intense che mai quan- do con gli amici del coro “Marmolada”
canto:
Sémo
qua co ‘na gran stèla
par
dorare Maria e Gesù.