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Marmoléda

MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Ottobre 2015 - Anno 17 -n.3 (65)

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Alla corte del principe  Antèlo...

( con il Coro Marmolada al Rifugio Pietro Galassi, per ricordare ‘Gigio’ e ‘Malga’ e, per me, un giovane amico di 19 anni, Loris, che lassù cadde…)

di Paolo Pietrobon

 

Per chi guarda con attenzione – e la giusta dose di fantasia – la bastionata sommitale dell’Antelao dalle vicinanze della Capanna degli Alpini, ultimo punto di ristoro della Val d’Oten prima di mettere piede sul sentiero che porta al rifugio Galassi, non è difficile tornare con l’immaginazione ad una leggenda tra le più belle della letteratura alpina, quella del Principe ‘Antèlo’.

Il quale, pur ammonito dalla solita strega sul pericolo che avrebbe corso inesorabilmente se avesse osato avvicinare la Principessa ‘Marmolada’ fino a guardarla negli occhi, non aveva saputo resistere all’impulso d’amore e, con un drappello di valenti seguaci, aveva varcato monti e valli fino ad affacciarsi sulla Costa del Monte Padon, giusto di fronte alla splendente montagna. Terribile e fulminea la realizzazione di quanto la donna malvagia aveva preconizzato: il cuore del principe, alla vista di tanta fulgida bellezza, aveva acceso il suo pulsare fino alla vertigine nel giovane amante, ma, l’istante stesso, cominciava a raffreddarsi, raggelando, con la speranza ormai sconfitta, la sua stessa vita.

Fuggì via, il valoroso ‘Antèlo’, volle ignorare la maledizione e, sostenuto dai suoi guerrieri, tornò sui suoi passi, nel suo reame, dove credeva di tarpare le ali maligne della fattucchiera…ma inutilmente, quel cuore infiammato dal primo amore dopo poco fu pietra, e il giovane principe cadde riverso, là dove oggi i nostri sguardi stupiscono al vedere così possente la sua montagna, così lucenti i suoi fianchi della trasparenza del diamante…

Ebbene, da quell’angolo della Val d’Oten puoi davvero riconoscere nelle Laste dell’Antelao il corpo disteso del principe, e così, nella calotta terminale il capo suo atterrato, e nei bastioni che sostengono il ghiacciaio superiore, subito prima dello spigolo Olivo, la spalla e l’omero del gigante, conficcati a terra nello sforzo di trattenere la definitiva caduta; e ancora, nelle balze antistanti la costa detta della Bàla, il tratto superiore della gamba…cosicché la leggenda vivrà sempre, oltre qualsiasi scientifica osservazione del maestoso macigno, a noi tutti così caro.

Del resto, non è questo, accanto a quello dell’ascesa avventurosa e misterica, il mito con il quale la MONTAGNA si è affacciata alla nostra ricerca di suggestioni forti, di allegorie etiche e spirituali, di saghe, domestiche o ultramondane, di teofanìe un po’ pagane ma, sempre, compensative e gratificanti? Dalle ‘anguàne’ di Làgole al drago del Lago di Federa, dal roséto incantato di Re Laurino all’alleanza – questa sì d’omerica ascendenza – tra il dio Thor e il pastore Vedorcia, sotto i castelli incantati dei Monfalconi di Montanaia, per finire con il vento Matteo della penna raffinata di Buzzati, la nostra montagna è stata poesia e sogno, favola e abbandono animistico, in qualche modo.

E ancora tensione ‘eroica’, appassionata rincorsa di canaloni e vette sulle relazioni dei grandi scalatori, dei veri avventurieri del ‘viaggio totale’: il Solleder del sesto grado sulla Civetta, il Comici dello Spigolo Giallo alle Lavaredo o delle Tre Sorelle al Sorapis, e i ‘Ragni’ e i ‘Gransi’ e gli Scoiattoli, un mondo parallelo pieno di intensità morale e coraggio, talora, perché no, di temerarietà o, più recentemente, di tentazioni commerciali o esibizionistiche, ognuno con un ‘idolo’ – nel mio caso la gigantesca figura di Walter Bonatti -, ognuno con un Coro, un Rifugio, una via, una nidiata di amici veri, sperimentati, fedeli, amanti del poco e del semplice, capaci di dare con generosità, portatori di una filosofia umana e libera da steccati, ideologici o settari di qualsiasi specie…

Tutto questo io cercavo fortemente in quel giorno, fino a provarne tensione positiva, per un’occasione speciale inventata intelligentemente dal CAI di Mestre, per ricordare Gigio Visentin e l’amico Malgarotto, sfortunati ma consapevoli innamorati di quel sogno, fino al punto di abbandonarvisi con il sorriso prima dell’evento dolorosissimo della slavina che li avrebbe portati con sé. E tutto questo cercavano tutti, era palpabile: nella commozione dei richiami, nei filmati, nelle canzoni nostre, giocate negli anfratti prestigiosi – da punto di vista delle emozioni – del grande ambiente alpino, appena fuori dal Rifugio, la notte, sotto stelle fiabesche, non senza accenni di commozione impegnativa, o in Forcella Piccola, in uno spazio infinito e per la bella giornata incantato, verso il Pelmo, la Marmolada, le Tofane e via via, il mondo fatato dei Monti Pallidi, e, alla conclusione di quello speciale ritrovarsi, accanto all’altarino antistante il rifugio, alto e spalancato sulle Marmarole orientali, la fiammeggiante Croda Bianca, tra tutte.

E una bottiglia. Una bottiglia? Sì, la bottiglia di spumante che il Gigio ( stavo per dire ‘nostro’, ma lì era evidente fino allo stupore vagamente venato di un possesso ridimensionato da circostanze ‘superiori’ che Gigio era proprio ‘di tutti’) prima di partire per il Tilicho aveva lasciato al comune amico ‘Dedo’, con l’intenzione che si sarebbe bevuta al suo ritorno alla vita ‘normale’, al successivo sogno, e che forse apriremo lì, in quello splendido rifugio, alpino come pochi, l’anno prossimo.

Perché molti di noi che eravamo lì - dopo due, sette, venti, quarant’anni – quel rifugio hanno vissuto ‘dentro’, ne hanno gestito e respirato la struttura e la vita, per esso hanno sperimentato lo stare in montagna non da ‘turisti’, magari frettolosi o distratti, ma da uomini e donne della montagna, delle sue albe limpide e fredde, delle ghiaie assolate, dei grandi ammassi di rocce strapiombanti sulla piccola dimora alpina, un granello calcareo al loro cospetto, delle notti lucenti e nette, di un respiro infinito e liberatorio, delle pietre e dei cuori degli umani. E dell’urlo di tragedia, che inevitabilmente talora tra quelle sfingi naturali, immote e fredde, esplode, contro ogni previsione, contro ogni pur incolpevole presunzione.

Questo appunto urgeva nell’economia di quella mia giornata, e per questo di primo mattino mi sono recato sulla soglia del catino ghiaioso della via normale all’Antelao, sotto la Bala, perché lì era caduto il mio più giovane amico: 19 anni l’età, promozione a giugno (!) al Pacinotti, il regalo del papà, contadino e poi operaio roccioso, orgoglioso per l’occasione forse non del tutto attesa, zaino e corda nuovi di zecca, e una fidanzatina incontrata da poco prezioso tempo, piccola e graziosetta Nelly accanto a quell’anima grande… Era il 14 Agosto del 1973, l’una, l’aspettavamo al rifugio per festeggiare la sua salita al ‘Principe’, avremmo folleggiato fino al giorno dopo, era venuto anche per questo, per festeggiare il mio compleanno…..ma era giunto solo un urlo, e un dramma definitivo, crudele.

Anche per questo tornerò al ‘mio’ rifugio, con i famigliari di Loris, cui ormai sono legato affettivamente, per rendere loro una ragione del luogo, eccezionale, e del modo, per quanto possibile, di quel dramma. Per tutte queste ragioni, al canto di ‘Rifugio Bianco’, quella sera, all’angolo buio del rifugio, dove tante volte avevamo cantato insieme a Loris, mani in tasca per il freddo, viso puntato sullo Scotter per sciogliere al cielo una felicità libera e prorompente, forse non sorprendentemente un groppo alla gola è venuto anche a me.