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Marmoléda

MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2015 - Anno 17 -n.4 (66)

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ARCHITETTURA  E  MUSICA:

UNA COMUNE ARMONIA

di Luigi Cerocchi

 

Scrivo come persona attenta agli eventi e ai fatti che possono incidere sullo stato dei luoghi e sulle loro trasformazioni, specie se si tratta di siti sensibili. Mutamenti cioè in grado di suscitare nell’opinione pubblica, e non solo, sentimenti di sdegno, disagio  e sconcerto o, per contro, di ammirazione e condivisione.

Da ex funzionario architetto di Soprintendenza, pur non essendomi  quasi mai occupato della tutela  del patrimonio culturale architettonico e paesaggistico di Venezia e della sua gronda lagunare, in quanto territorio non di competenza della Soprintendenza  del Veneto Orientale cui ho prestato servizio per lungo tempo,  ho  sempre tuttavia posto una certa  attenzione alle problematiche della tutela veneziana. E ancor più  mi sento di poterlo fare ora che  sono svincolato da legami di qualsiasi tipo con chi ha l’autorità di decidere su  scelte, spesso sofferte, che se attuate possono incidere positivamente o negativamente sull’assetto estetico di particolari ambiti tutelati e/o oggetto di salvaguardia.

Mi riferisco nella fattispecie all’ampliamento dell’Hotel Santa Chiara di Venezia in Piazzale Roma, il cosiddetto “cubo”, da non molto tempo liberato dai ponteggi, che tanto clamore ha ingenerato tra i veneziani, tra la gente comune, tra i turisti e tra i cosiddetti, o sedicenti, addetti ai lavori, quali critici, opinionisti, giornalisti o eminenti professori ed esperti  del settore, con critiche e “sentenze di condanna inappellabili”.

Rispetto naturalmente il ruolo delle autorità preposte al rilascio delle prescritte autorizzazioni e la  loro indiscussa autorità e discrezionalità che ben conosco e che non mi permetterei mai di contestare, limitandomi  a discutere  sull’esito di un processo progettuale, che seppure sicuramente avviato secondo  criteri che la Soprintendenza non può non aver indicato, è giunto, a mio parere, ad un risultato diverso da come ci si sarebbe potuto aspettare e pertanto da me non condiviso.

Al di là dei proclami e delle affermazioni, diffuse a volte gratuitamente e propagandisticamente, magari senza una effettiva conoscenza  della costruzione in questione e delle preesistenze storiche, e sollevate in merito al “cubo” l’estate scorsa su alcuni quotidiani (e tra queste cito quella di un giornalista di un'importante testata nazionale, il quale definisce l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara “un cazzotto di cemento”, senza evidentemente sapere che la sua struttura è un telaio di acciaio e non di cemento armato), se si vuole esprimere un giudizio su un opera contemporanea non ci si deve lasciare trasportare, a mio parere,  dall’ emotività  dell’impatto estetico del momento, ma questo deve discendere da una riflessione fondata  sul perché di quella soluzione progettuale.  Alla domanda del perché di quel risultato, bisognerebbe rispondere che ci sarà una ragione, ma bisogna capirla e solo dopo, eventualmente contestarlo.

Riflessione che non può prescindere dalla conoscenza dell’edificio esistente e  della porzione conventuale  a suo tempo demolita, su parte del cui  storico sedime è stato realizzato l’ampliamento in questione. In altri termini, non sarebbe lecito ampliare un edificio, o, come nel caso di cui trattasi, ricostruire una parte della porzione demolita  ( in occasione della realizzazione di piazzale Roma), senza tenere conto, oltre che  della porzione esistente cui aderisce, delle caratteristiche formali  e stilistiche della parte perduta.

Questo non significa riproporne forma e caratteri architettonico – stilistici, in quanto ciò si configurerebbe come una imitazione in stile e quindi come un falso storico, visto anche il tempo trascorso dalla demolizione della parte su cui sorge l’ampliamento, ma quest’ultimo si sarebbe potuto realizzare  con maggior rispetto della storia del sito. Cioè un manufatto, che pur diverso, sia nel sistema costruttivo che formale, da quello esistente e dalla porzione mancante, ne richiamasse, almeno per grandi linee, la sagoma, il tipo di copertura a tetto, la dimensione e distribuzione delle aperture (finestre), il colore, ed eventualmente qualche dettaglio estetico della tradizione veneziana,  visto che ci troviamo all’ingresso della città.

Una simile attenzione, avrebbe evitato di conferire alla nuova costruzione, così come concepita, un ruolo dominante  e di protagonista,  come infatti appare,  rispetto alla dignità dell’edificio esistente, mentre la stessa si sarebbe dovuta inserire sull’esistente , pur con la sua modernità ed attualità, in modo discreto, in  armonia con il contesto così come sviluppatosi  nel tempo, pur nella caoticità di piazzale Roma.

Ma a questo punto, ci si potrebbe domandare,  cosa c’entra tutto questo con le tematiche inerenti il canto popolare corale e con le vicende storiche e sociali  ad esso connesse, che sono poi le argomentazioni trainanti e i motivi di riflessione di cui il Notiziario si fa interprete?

C’entra, per il semplice motivo  che un agglomerato edilizio storico, ma anche moderno o contemporaneo, più o meno vissuto, ma comunque rappresentativo di una identità urbana entro la quale ci si muove, deve offrire soluzioni estetiche ed armoniche in grado di favorire un senso di gradevolezza e di appagamento estetico, non solo per chi ne fruisce ma anche per chi lo frequenta o semplicemente  lo visita. Sensazioni  ne più nemmeno assimilabili a quelle dell’ascolto di un brano musicale così come composto o come semplicemente interpretato.

Il centro storico di Venezia, per la maggior parte della sua estensione, soddisfa tale esigenza, mentre per altre parti, e tra queste la zona di Piazzale Roma,  non si può  certo dire che tale esigenza sia soddisfatta.  Piazzale Roma, lo sanno tutti, è uno spazio veneziano atipico, che si caratterizza proprio per la sua atipicità, dove vi è di tutto e di più e dove tutto o quasi si è potuto fare, e si fa tutt’oggi (pensilina del tram compresa). Ma quando si vanno a mettere le mani a ridosso o in aderenza di testimonianze storiche di qualità, sopravvissute  alle trasformazioni del sito, non è lecito fare tutto senza una ragionata ed accurata analisi della storia e delle trasformazioni del particolare contesto.

La ricerca dell’armonia nelle trasformazioni degli ambiti urbani è elemento imprescindibile nella progettazione dei nuovi  inserimenti , dove ogni elemento dell’insieme deve tener conto degli altri elementi che compongono il contesto, e cioè, come appunto avviene per l’ arrangiamento di un testo musicale o in un orchestra, e direi anche in un coro, la sequenza delle note e degli accordi, l’armonia delle varie voci, l’intensità del suono e/o delle percussioni, per quanto variegati e fantasiosi siano, devono rispettare  precise regole, se si vogliono evitare sgradite dissonanze ed inaccettabili stonature.

In un importante trattato di Rudolf Wittkower, “Principi architettonici nell’età dell’umanesimo”, un apposito capitolo (il problema della proporzione armonica in architettura) tratta proprio questa tematica.

In quel testo, si riferisce ad esempio che Il programma platonico di Francesco Giorgi per San Francesco della Vigna a Venezia si concretizza nell’impianto architettonico della chiesa (concetti poi ripresi dal Palladio e da una lunga schiera di architetti nei secoli seguenti).

Il 15 agosto 1534, il Doge Andrea Gritti pose la prima pietra della nuova chiesa, la cui edificazione venne iniziata in base al disegno di Jacopo Sansovino. Ma presto, a seguito di divergenze circa le proporzioni della pianta, il Doge incaricò il frate francescano Francesco Giorgi di scrivere un memorandum a proposito del modello sansoviniano, nel quale il Giorgi definì la proporzione tra larghezza (m.9) e lunghezza della navata (m.27) nel rapporto (9:27) in termini musicali; cioè un’ottava e una quinta, considerando la progressione 9 : 18 : 27; poiché 9 : 18 =1:2 = un’ottava e 18 : 27 = 2 : 3 = una quinta. Rapporti armonici che discendono da Pitagora, che scoprì come i toni possano misurarsi spazialmente.

Ci si potrebbe dilungare all’infinito su queste disquisizioni di impostazioni numeriche e  rapporti spaziali, come fecero all’epoca i nostri “trattatisti”, ma ho voluto riportare solo un esempio. Rapporti che riguardavano ovviamente anche l’organizzazione delle facciate e quindi l’impatto visivo più evidente degli edifici, anche di architettura minore, del nostro Rinascimento e dei  secoli seguenti, fino alla  metà del secolo scorso, quando la rivoluzione post moderna li ha soppiantati legittimando in seguito qualsiasi soluzione progettuale, anche la più stridente.

Un po’ come è avvenuto anche per certi generi musicali, soprattutto  per la musica classica.

Concludo sostenendo che ci possono essere ambiti in cui, in assenza di manufatti storici,  o in presenza di manufatti storici residui e/o sparsi tra ricostruzioni  recenti  o del tutto estranee al contesto storico,  con lacune comunque colmabili, è possibile l’inserimento di un manufatto totalmente moderno e contemporaneo, senza particolari richiami alla storicità del sito, come potrebbe verificarsi  anche in altre parti dello  stesso piazzale Roma, ma nel caso in questione non vi erano, a mio parere, le condizioni per una  libera scelta progettuale che non tenesse conto, come detto, del particolare contesto in cui andava ad inserirsi.

Lo stesso  potrebbe dirsi  per il recupero (o “restauro”) di brani musicali perduti  (anche popolari) e ripescati, dove il recupero o la reinterpretazione di eventuali vuoti di testo o di arrangiamento  ovviamente  non possono non tener conto dell’armonia e dell’integrazione con le parti superstiti.

 

NOTA DELLA REDAZIONE

A completamento di questo articolo di Luigi Cerocchi e del preambolo precedente di Paolo Pietrobon, riteniamo doveroso segnalare l'articolo/intervista al  fisico Gianni Zanarini, docente di scienza e arte all’Università Bicocca di Milano, di Giacomo Gambassi dal titolo "La musica in cifre fra cielo e terra" ed apparso su Avvenire.it a questo indirizzo.