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Marmoléda

MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2015 - Anno 17 -n.4 (66)

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I canti della guerra: quinto appuntamento

 

MONTE PASUBIO ( il canto della mina ) 

 

di Paolo Pietrobon

 

La prima lettura di quest’altro gioiello della coralità alpina d’autore, giocato dall’estro poetico di Bepi De Marzi sui temi musicali della ridondanza e della diversione, riconosce immediatamente le nuove icone rappresentative della buona mitologia dei soldati di montagna: l’andare per colonne e il frastuono incombente dei cannoneggiamenti su in alto, ove è prevedibile, quasi scontato per molti, il sacrificio estremo: “ Su la strada del Monte Pasubio / lenta sale una lunga colonna / l’è la marcia de chi non torna / de chi se ferma a morir lassù. / bomborombom bom…”.

Ridondante quel rombo incessante, lontano a volte, altrimenti incombente, capace di travolgere borgate e paesi in valle e disperderli nell’allontanamento senza approdi prevedibili e rassicuranti: le poco raccontate tragedie degli sfollati, poco raccontate perché assorbite nella rassegnazione delle popolazioni e, in fondo, poco utili al rendiconto sincero di un’epopea doverosamente gloriosa. Rassegnazione e lontananza, sentimenti e angosce struggenti di chi osserva i lampi notturni dell’ ‘inferno’, al fronte, dove figli, fratelli e mariti stanno annaspando, con l’anima a pezzi, in un olocausto orribile, di fuoco, gas e baionette sempre pronte a squarciarti la gola.

Divergente, e incomprimibile, nell’iper-coscienza dell’onore militare più che nella consapevolezza di un evento ragionevolmente controllabile dal soldato-alpino, quindi per quella mitologia un soldato speciale, un ‘ ma ’, forse gridato nella marcia d’avvicinamento, e poi trasferito al ghigno disperato del corpo a corpo sul labbro della trincea – la propria o l’altrui poco importa –, quel ‘ ma gli alpini non hanno paura ’ che suona da riserva psichica assoluta per agire, quando non lo siano le pistole d’ordinanza di qualche ufficiale ‘bramoso di gloria’ puntate alla schiena del soldatino irrigidito dall’umana radicale paura, o il trangugiamento sconvolto di decisivi sorsi di grappa, quasi mai assenti al fronte…

In ogni caso con la conquista di un onore pulito e per nulla retorico, e della pietà di chi raccontò e racconta ciò che i tanti ossari dispersi nelle nostre regioni alpine ricorda doverosamente, e pretende dal visitatore un inchino profondo, rispetto e ‘compassione’, come oggi s’usa dire senza se e senza ma.

Vanno in colonna quei nostri soldati, scarpe e abbigliamento improbabili, infinita processione di ragazzi e padri di famiglia senza alternativa, sequenza puntiforme d’anime nei duri passi montani, allora, oggi luoghi paciosi del moderno viaggiatore, sovente ignaro passante o consumatore accanito di diavolerie tecnologiche – auto e mefitiche teorie di pullman fin sotto alle forcelle della sofferenza illimitata di quegli alpini, e del sacrificio di tantissimi di loro – scambiate per usuali bus di città.

Vanno e, sotto di loro, sentono i compagni scavare, “ soto i denti ghe ze ‘na miniera / ze i alpini che scava e spera / de ritornare a trovar l’amor…”: la guerra di mina, l’altra micidiale icona, la guerra sotterranea, gli uni sopra gli altri, anche più volte, a cercare nelle viscere della roccia una salvezza purchessia, con decine di migliaia di tonnellate insaccate in cunicoli e pozzi, e lo smantellamento di intere montagne, crateri immensi nei quali non serviva nemmeno seppellire le centinaia di morti, inghiottiti dalla terra che li aveva generati, ma per vivere, amare, crescere i figli…

Ma…ancora quel ma…sulla cima devastata dalle esplosioni e silente, funerea, allorché solo il vento rimane a vestire panni di un alcunché di vitale, percepibile alla carezza di un fiore, “ gli alpini non hanno paura ”, nonostante tutto, contro ogni logica di chi vive nella normalità delle convenienze e delle opportunità, di chi abbia – e anche grazie a loro abbiamo oggi – in sorte di non conoscere guerra, odio, dissoluzione di sé e del proprio vivere quotidiano. L’onore e l’arma ( i compagni di trincea più che tanta ufficialità ) sono salvi, devono essere salvi, perché elementi di una dignità che era parte del vivere valoriale e storico di quei contadini vestiti da soldato. Ciò, comprensibilmente dato che trattasi di canzone d’autore, sgorga dall’anima grata di un poeta e musicista a quei ‘ tosi ’, ma collima amorevolmente con le memorie loro, incise in diari e testimonianze, nelle balze montuose tuttora religiosamente tutelate e rispettate, almeno finché il sentimento onesto della storia vinca sulla dimenticanza degli ignavi o sul cinismo dei pavidi.

 

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Nota 1: I ‘ denti ’ di cui qui si parla, secondo la lettura preferibile del testo, sono in realtà due acrocori rilevati nella cresta del Pasubio, italiano l’uno, austriaco l’altro, il primo dei quali fatto saltare dopo mesi di scavo sotterraneo, di orecchie sulla roccia viva a distinguere i movimenti nemici, della speranza angosciosa di recuperare il filo di una sopravvivenza nel caos dell’annientamento del nemico, ancora e sempre questo. Oggi, a memoria solenne di quegli spasimi, è l’intero comprensorio del Pasubio diventato monumento e ammonimento vasto, complesso, anche affascinante in un certo senso. “ La zona del Pasubio, dichiarata monumentale dal 1922, è delimitata da 30 cippi che ricordano i reparti che maggiormente si distinsero negli accaniti combattimenti. Vi si accede percorrendo vie fascinose ed austere: la strada degli Eroi, nel cui tratto a monte sono collocate le lapidi ricordo di 15 decorati di Medaglia d'Oro, tra cui quelle dei trentini Cesare Battisti, Damiano Chiesa e Fabio Filzi; la strada degli Scarubbi e, la più famosa via d’accesso al Pasubio, una delle maggiori opere belliche di tutto il conflitto, la Strada delle 52 gallerie, una mulattiera che permetteva all’esercito italiano il collegamento fra la base del monte e la zona alta al riparo dal tiro nemico. La realizzazione di mine e contromine fu molto intensa anche sulla Marmolada con l'applicazione di cariche nei tunnel scavati nel ghiaccio ”.

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Nota 2. Con i drammi ‘sconfinati’, letteralmente, dell’oggi, dell’Europa sotto attacco, e di una ‘guerra mondiale’, la terza?, fatta di frammenti e presente già nei cumuli di detriti umani e strutturali, e di tante vittime innocenti, affatica e costringe al dubbio il nostro scrivere delle ‘ guerre grandi ’ del Novecento, commemorate così tanto forse per una scaramanzia sul futuro che pare infrangersi su interminabili follie e ipocrisie e problemi irrisolti dal consesso mondiale.

Ma tant’è: forse continuare a fare ciò che è bene ed utile fare nelle nostra dimensione umana e sociale è cosa giusta e necessaria, supponendo che i ‘grandi poteri’ rinsaviscano in tempo ( certo non come nella confessione dell’ex premier inglese Blair il quale, candido, ha offerto alle telecamere l’ammissione di una guerra all’Iraq intentata e disastrosamente compiuta senza le motivazioni addotte per imporne la necessità, anzi nella consapevolezza dell’inconsistenza di quelle ragioni). Ed inchinarci dolorosamente alla memoria delle vittime del terrorismo internazionale.