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Marmoléda

MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Giugno 2017 - Anno 19 - N. 2 (72)

 

 

 

Canzoni da battello veneziane

di Sergio Piovesan

 

Premessa

 

Di recente è uscita una nuova pubblicazione "on line" sotto l'auspicio del Coro Marmolada; si tratta di una raccolta di spartiti di quindici canti da battello veneziani in formato .pdf che è possibile consultare e scaricare dal sito del coro[1] ed anche dal mio sito personale[2] . Dagli stessi "links" è possibile anche ascoltare/scaricare la musica digitale, creata dalla digitalizzazione degli spartiti, in formato .mp3.

Nelle partiture originali, che abbiamo voluto trascrivere fedelmente, sono state usate molto spesso chiavi che, nella  attuale scrittura, non vengono normalmente utilizzate.

Infatti, sono state utilizzate per alcuni brani la chiave di soprano (do sul primo rigo), in altri quella di contralto (do sul terzo rigo)  in altri ancora quella di tenore (do sul quarto rigo).

In particolare in un solo brano, è stata utilizzata la scrittura in chiave “francese” (do sul secondo spazio)  oggi non più utilizzata.

Nella presente pubblicazione, è stata riportata per prima la trascrizione come nell’originale e, successivamente la trascrizione in chiave di Sol, questo allo scopo di rendere più agevole una corretta lettura.

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Nella prima metà del 18° secolo la città di Venezia, come ricorda anche il Goldoni, risultava essere percorsa diffusamente da "eventi" canori, soprattutto di notte, "...nelle piazze, per le strade, nei canali...". Non solo durante i carnevali, ma anche e soprattutto nella bella stagione, barche (gondole e altre), con musicisti e cantanti, erano i protagonisti dei cosiddetti "freschi". Da queste "feste" musicali nasce la tradizione di scrivere musiche definite "canzoni da battello".

Testi non solo d'autore -all'inizio ad imitazione delle opere teatrali allora in voga- si univano a musiche i cui autori potevano essere sia professionisti che dilettanti. Ma dei musicisti professionisti non si conosce quasi mai il nome in quanto gli stessi attribuivano a questo genere di creazioni poca importanza. Spesso si trattava, soprattutto per quanto riguardava le "canzonette-serenata", di opere commissionate da chi desiderava manifestare i propri sentimenti alla donna amata con la speranza che questa aderisse ai desideri dello spasimante. Contemporaneamente, però, si inserirono testi meno aulici e più "popolari", quasi sempre di genere amoroso e, spesso, anche licenziosi.

Nacque quindi un genere di musica che può definirsi colta e popolare nello stesso tempo.

La lingua usata era, ovviamente, il veneziano, la "materna lingua", ma si trovano testi anche in italiano ed in francese, pur se in quantità limitata. In molti casi, però, anche il veneziano viene un po' "adattato al toscano", soprattutto nelle doppie che, come si sa, nella nostra lingua si può dire che non esistano. Si trovano anche delle canzoni in un veneziano molto approssimativo, con alcune parole prese da altri idiomi, come se a cantare e ad interpretare fosse o un tedesco o un armeno, rappresentanti di nazioni presenti in Venezia in quanto commercianti. 

Chi, per primo fra gli stranieri, si interessò alle "canzoni da battello veneziane" fu Jean-Jacques Rousseau, filosofo, scrittore ed anche musicista, che fu a Venezia in qualità di segretario dell'ambasciatore di Francia presso la Serenissima dal settembre 1743 all'agosto 1744 e che fu un ammiratore entusiasta di questo genere musicale.

L'esecuzione dei canti, per lo più ad una voce femminile, era accompagnata da qualche strumento musicale, in genere violino, violoncello e flauto, ma a volte anche con la sola chitarra. Non mancano, però, composizioni a due voci dove la seconda voce, a volte anche improvvisata omoritmicamente rispetto alla prima, si armonizzava per terze o seste.

La produzione dei canti da battello è stata vastissima, ma non tutto è giunto fino a noi perché molto materiale è andato "perduto", come da riferimenti e studi di chi, con grande competenza, ha esaminato questo fenomeno musicale; per "perduto" si intende distrutto, ma anche trafugato (il più delle volte) o non più trovato perché imbucato in qualche archivio, sia pubblico che privato, senza destare interesse.

Una raccolta interessante e, sottolineo, abbastanza esaustiva, è quella pubblicata dalla Regione del Veneto nel 1990 a cura di Sergio Barcellona e Galliano Titton. In essa sono raccolti circa cinquecento testi e spartiti, questi ultimi in riproduzione anastatica degli originali manoscritti, di opere nate in un decennio, dal 1740 al 1750, quindi un breve periodo in quanto il genere si è sviluppato, anche evolvendosi, nel resto del '700 e nel secolo successivo.

La pubblicazione citata non è in commercio e si trova, solo per consultazione, presso biblioteche pubbliche veneziane e venete. Il Coro Marmolada ne possiede una copia della quale è stato omaggiato, anni fa, per l'esecuzione di un concerto nella Cattedrale di San Pietro di Castello in Venezia.

Io ho consultato quest'opera ponderosa (anche fisicamente) e ritengo che possa essere  interessante per quei musicisti che vogliano approfondire e studiare la materia in una visione più moderna.

Di seguito  riportiamo gli spartiti di quindici canzoni che rispecchiano l'assieme di questo genere e -in appendice- i relativi testi.

Si tratta di brani che, pur rientrando fra i "canti da battello", sono molto diversi l'uno dagli altri.

 

Se "Cara Nina son pentio" e "No te par ora" possono essere considerati i "classici" canti di questo genere, dove lo spasimante si rivolge alla sua amata alla quale esprime tutto il suo ardore, "Un'anguilletta fresca" è invece pur sempre un canto amoroso, ma con una vena licenziosa dove abbondano i doppi sensi.  

Anche "Belle parole" e "Che granzi xe mai questi" sono canti amorosi, un po' maliziosi in quanto la speranza e la conclusione sono esplicite di un amore non platonico.

In "Putte care abbié giudizio"  troviamo un consiglio, ma forse è più un invito, rivolto alle fanciulle perché siano giudiziose in ambito amoroso per non pentirsi poi e per non dare adito a mormorii.

Poi scopriamo un misogino in "Siè pur astute" che conosce tutti i metodi messi in atto dalle donne per intrappolarlo, cosa che, invece, aborrisce.

"Premi via, premi o stali" esprime l'orgoglio della categoria dei barcaioli che sorridono nel vedere altri che vogliono imitarli nel mestiere.

"Dopo ch'ogni mistier" racconta i pro ed i contro di un mestiere girovago ormai scomparso, almeno nel metodo che si usava una volta, quello che veniva denominato con il richiamo caratteristico "strassi e ossi"; si trattava di personaggi che giravano per acquistare, ovviamente secondo la loro stima, anticaglie o meglio cose vecchie.

"Pour chanter comme il faut", composto di una sola strofa (unica?), riassume le regole per cantar bene, regole che i direttori di cori ripetono sempre ai loro coristi.

Altri due canti sono esempi di come avrebbero potuto cantare, e senz'altro lo facevano, cantanti residenti in Venezia, ma di altre nazionalità, che si esprimevano in un veneziano "maccheronico", spesso con pronuncia che rivela l'origine dei natali. Questa caratteristica è più evidente in "Non star bon usanze" come si riconosce molto bene leggendo il testo; "D'Armenia vegnira" pur avendo in parte le caratteristiche del precedente, tuttavia evidenzia più che altro l'attività mercantile della comunità armena che da circa cinque secoli aveva rappresentanti nella città.

Inviti a godere della vita, in vari modi, sono il contenuto di altri tre canti: in "La staggion bella e tranquilla" e in "Sveggeve putte care" è la bellezza della natura, mentre in "Za che semo qua a sta tola" la buona compagnia e la buona tavola  sono i mezzi per raggiungere la felicità.