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Marmoléda

MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Ottobre 2017 - Anno 19 - N. 3 (73)

 

 

 

Dopo Caporetto:  le storie dei profughi nei canti

di Sergio Piovesan

 

Nell'ambito del centenario della Grande Guerra, quest'anno  2017 ricorda in particolare la cosiddetta "disfatta di Caporetto" che vide -il 24 ottobre 1017- l'improvviso ed inaspettato attacco (inaspettato e sottovalutato dalle alte gerarchie militari) delle truppe austro-tedesche contro il nostro esercito posizionato, appunto, nella zona e nelle montagne attorno al villaggio reso poi noto da questa azione fulminea tanto che, ancor oggi, per nominare un qualcosa  che ha un risultato fortemente negativo si dice che è "una Caporetto".

Ma, al di là della disfatta militare, che vide l'esercito italiano ritirarsi ed arroccarsi -in pochissimi giorni- sulla riva destra del Piave, vi fu anche un grandissimo esodo della popolazione civile del Friuli e del Veneto verso luoghi più sicuri presso altre regioni italiane. Si trattò di un esodo di circa quattrocentomila persone, in maggioranza donne, vecchi e bambini che con ogni mezzo (a piedi, sui carri e poi con i treni) fuggirono da paesi e città che poi furono occupati dal nemico.

Nacquero quindi storie di profughi che, nell'occasione del centenario, vengono rispolverate e scoperte: diari, immagini e racconti, ma non solo; anche canti, d'autore e non, raccontano quelli che furono drammi e vicissitudini varie di queste popolazioni.

Un profugo, Arturo Zardini, che dalla cittadina di confine Pontebba  si trasferì a Firenze dove, nel novembre del '17, scrisse e compose il famosissimo "Stelutis alpinis", musicò una poesia di Ercole Carletti([1]),   che, però, non raggiunse la fama del suo capolavoro,  e che racconta in pochi, ma sentiti, versi  il dramma di chi dovette chiudere casa ed abbandonare tutto con la speranza, ma non con la certezza, di poter tornare e di ritrovare quello che aveva dovuto abbandonare . Il canto s'intitola "27 de otubar". Il 27 di ottobre le truppe nemiche, dopo aver dilagato nella valle dell'Isonzo, erano a Cividale a pochi chilometri da Udine. Il testo([2]) in friulano mette in evidenza il dramma di chi chiude casa, descrivendo le azioni nei minimi particolari, ma evidenziando anche le emozioni,  la tristezza  e l'ansia dei profughi.  È una condizione per certi versi insostenibile tanto da invidiare chi è già morto e che, quindi, non viene provato da questo dolore. E come altri canti di carattere popolare, anche se d'autore, conclude con una preghiera e con la speranza di poter tornare a casa.      

Vedere la traduzione in nota([3]) .

Lo spartito di questo canto è visualizzabile e scaricabile da questo indirizzo

http://www.coromarmolada.it/51VillFriul/VillotteAltriCanti.pdf  che raccoglie 51 canti friulani mentre la musica in formato digitale, creata con la digitazione dello spartito stesso, si trova su http://www.coromarmolada.it/51VillFriul/MP3/42-27%20di%20otubar.mp3

 

Se il Friuli fu il territorio completamente occupato, il Veneto lo fu in parte fino al Piave, che, alla foce, si trova a breve distanza da Venezia. Infatti da Cortellazzo, frazione dell'attuale comune di Jesolo, i proiettili dei cannoni austriaci, oltre alle bombe lanciate dagli aerei, piovevano su Venezia e, anche da qui molti abitanti dovettero fuggire, chi in barca ma, soprattutto, con i vaporetti che presero la direzione di Chioggia dove, poi, venivano caricati sui treni per raggiungere destinazioni diverse. Anche questo esodo di veneziani ha trovato chi, un anonimo, ha voluto raccontare  con versi in linguaggio popolare -dove si trovano espressioni dialettali ma anche in lingua- la situazione di questi veneziani che con un solo poche cose, un "fagotelo", si mettono in viaggio per sfuggire ai pericoli della guerra ormai troppo vicina a casa. Anche questo canto porta come titolo una data "El dicioto novembre"; sono passati venticinque giorni dalla rotta di Caporetto ed anche nella nostra città il pericolo è incombente e, quindi, parte della popolazione fugge. Rimangono gli uomini, civili militarizzati, che in parte, come si vede in una notissima immagine, provvedono con fucili alla "contraerea" dalle altane.

Per i profughi il viaggio non è tranquillo: durante la navigazione, il cui itinerario passa per Malamocco, c'è il pericolo di un'incursione aerea, ma poi la scarsa alimentazione, il freddo ed il lungo viaggio in treno. Il canto, vedi il testo in nota ([4]) è stato trascritto da Luisa Ronchini nel libro "Sentime bona zente"  (Filippi Editore, Venezia, 1990) sul quale riporta questa annotazione: "È la drammatica cronaca della fuga -quasi un pellegrinaggio-  della gente veneziana sorpresa dalle bombe austriache durante la prima guerra mondiale. Il canto è stato raccolto  nel 1966 da Gualtiero Bertelli dalle zie Lidia e Linda Gottardo, che, a loro volta, lo avevano appreso dalla nonna. Io stessa ho raccolto il "Canto dei profughi veneti", con leggere varianti, da Noemi, a Venezia, nel 1975".   

Il canto si trova anche con il titolo di "Adio Venessia, adio" e può essere ascoltato in youtube, con qualche strofa in meno,  all'indirizzo  https://youtu.be/I2er6r4sSxs        

 


[1] (Udine, 1877 – Udine, 1946) è stato un poeta, drammaturgo e linguista italiano, autore di poesie e testi teatrali in lingua friulana.

 

[2]   Vin siarât !a nestre puarte,
vin dat jù ben il saltel,
e si sin metûz par strade,
cui frutins a brazzecuel.
Oh, ma piês di tant sterminio,
piês di tant dolôr di cûr,
pas cun pas nus compagnave
la vergogne dilunc fûr!
Furtunâz i muarz sotiâre,
che àn finît la lôr stagjon,
che àn siarât i vói adore,
e no san cheste passion
Ma cumò, Vô, sustignìnus,
o Signôr, e dàinus flât di
tornâ tes nestris cjasis,
francs di cûr e a cjâf jevât.

 

[3]  Abbiamo chiuso le nostre porte,
abbiam messo giù bene il nottolino,
ci siam messi per strada,
con i bimbi a braccia collo.
Oh, ma peggio di tanto sterminio,
peggio di tanto dolor di cuore,
passo con passo ci accompagnava
fuori difilato la vergogna.
Fortunati i morti sottoterra,
che han finito la loro stagione,
che han chiuso per tempo gli occhi
e non provano questa afflizione
Ma adesso, Voi, sosteneteci,
o Signore, dateci forza di
tornare nelle nostre case, franchi
di cuore e a capo levato.

 

[4] El diciaòto novembre,
una giornata scura
montando in vaporèto
i n’ha fato ciapar paura.

Col fischio della sirena,
col rombo del cannone,
noialtri pòvari profughi
intenti all’incursione.

El marinèr da bordo
diceva: Andate a basso,
ché qualche mitragliatrice
potrebbe farvi danno.

Adio, Venessia, adio,
noi se ne andiamo,
adio, Venessia, adio,
Venezia salutiamo.

Passando per Malamoco
ghe gera de le donéte,
che tutte ci dimandavano:
Ma da che parte siete?

Siamo dal Cannaregio,
San Giacomo e Castèlo,
siamo fuggiti via
col nostro fagotèlo.

E arrivati a Chioggia
si misero acampati
come fussimo stati
i pòvari soldati.

Dopo tre ore bone
'rivata la tradòta,
ai pòvari bambini
un poca de acqua sporca.

E a noi per colazione
la carne congelada,
e dentro ghe conteneva
qualche bona pissada.

E da Rovigo a Ferrara
una lunga fermata,
durante tutta la notte
fino alla matinata.

Dopo quarantott’ore
nostro penoso viaggio,
siamo arrivati a Pesaro,
uso pellegrinaggio.