LA  PAROLA AI PROTAGONISTI ( 7 )

INTERVISTA CON IL MAESTRO PAOLO BON

di Paolo Pietrobon

 Riprendo la rubrica, dopo qualche tempo, per avviarla ad una conclusione, pur sempre provvisoria nell’ambito di un’esperienza fluida e diversificata qual è la coralità di ispirazione popolare da cui siamo partiti. E voglio ‘interrogare’ Paolo Bon, che ha sostanzialmente promosso, intorno al 1970, il movimento innovativo della Nuova Coralità, che ebbe il suo ‘manifesto programmatico ed etico’, da noi riportato a suo tempo in ‘Marmoléda’.

Di lui Giancarlo Bregani, dalle cui analisi prese il via la mia indagine, dice: “...è quello che, lavorando con il suo Coro (il ‘Cesen’-n.d.r.), splendido strumento, spesso discusso, ma abbondantemente copiato, fa il Malatesta, su ricerche timbriche, su impasti nuovi, su strumentazioni vocali che hanno allargato enormemente il campo della conoscenza dell’uso della voce, perfezionando ogni volta di più la lezione da lui proposta ormai trenta e più anni or sono... è quindi musicista preparato ed attento, un self-made man vero e proprio anche in quanto studioso nel sottofondo psicologico e storico del canto popolare. In lui riecheggiano antiche strutture musicali condite da una vena feconda, ricca di nuove sonorità”. (1)

A lui la parola, dunque.

 

Domanda. Si fa un gran parlare, e da molti anni, del ‘canto corale d’ispirazione popolare’ e del suo possibile esaurimento per consunzione di fonti e di materiali originari. Giorgio Vacchi, Direttore del Coro ‘Stelutis’ di Bologna, così motiva il suo ottimismo “ io dico che il contadino, abbandonando la campagna... ha cominciato ad aggiungere altri pezzetti della sua nuova esperienza... c’è tuttora una massa di elementi sonori (sì, anche da radio e televisione) che ---- vanno ad alimentare quel bacino che saprà, in futuro, offrire qualcosa che assomiglierà ad un nuovo canto popolare... ma ciò è compito nostro, creando qualcosa di nuovo che renda il coro interessante per le nuove generazioni...” (2).

Qual è l’opinione del Maestro Paolo Bon?

Dobbiamo essere tutti molto grati all’amico Vacchi per l’immane contributo di raccolta e archiviazione del materiale orale, ma io non credo che si tratti dei canti dei contadini o più in generale delle “classi subalterne”. Il dibattito fra la tesi “sociologica” (Carpitella, Leydi, Pianta, Mantovani, Liberovici, Vacchi ed altri) e la più recente tesi “antropologica” mia e del giovane Luca Bonavia è ormai avviato e “La Cartellina” gli ha dato ampio spazio. Per me e Bonavia si tratta di “espressioni dell’arcaico”, che si collocano sullo stesso piano del canto gregoriano.

La differenza è solo nel fatto che gli “archaiòi tìpoi” gregoriani si sono fissati nella forma documentale e cristallizzati nella funzione liturgica, mentre gli altri continuano ad evolvere, secondo l’antico aforisma “pànta rèi”. Ad aggiornare quel repertorio ci pensa la natura, pretendere di farlo noi sarebbe oltremodo arrogante. Il compito del musicista è, più semplicemente, di “far musica”: se è legato alle matrici letterarie e musicali arcaiche, le saprà far rivivere all’interno della propria esperienza compositiva, come hanno fatto Di Lasso, Marenzio, Gallus, ma anche Palestrina e giù giù fino a Bach. E’ solo col sogno d’onnipotenza romantico che finisce la luna di miele fra il musicista e gli archetipi orali.

Oggi è tempo di ricostituire il legame con l’arcaico, che è quanto dire riannodare le fila della storia dell’umanità.

Domanda. Per molti giovani da noi interpellati il canto corale è ‘roba da anziani’, i suoi repertori anchilosati, ‘out’, e la vocalità corale nulla può a fronte dei nuovi mezzi di comunicazione e  di diffusione musicale.

Cosa si può fare per avvicinarli alla nostra attività?

Il problema, purtroppo, è reale, e lo dimostra la media anagrafica dei componenti di molti cori. Ma la mia impressione è che l’anzianità degli organici sia essenzialmente il prodotto della vacuità dei repertori e dello scarso impegno di studio e ricerca di molti direttori. Intendo dire che se il direttore è dotato di professionalità e carisma, propone repertori impegnati (non importa se si tratta di gregoriano, di modalismo polifonico, di Bach, di chor-lieder o di moderne elaborazioni di esiti orali), ed esige dai cantori il proprio stesso impegno e la capacità di leggere una partitura, i giovani arrivano, eccome, per fortuna gli esempi non mancano.

Domanda. In una recente riunione ASAC--- ti ho sentito svolgere un intervento a mio parere molto importante sulle possibilità di nuove musiche e nuovi testi rintracciabili, per esempio, negli scambi di cultura e di civiltà che la posizione di popoli diversi attorno ad un mare, il ‘Mediterraneum pontum’, di cui Venezia fu ed è perno rilevantissimo, favorisce.

Allora anche le integrazioni multietniche tra migranti ed ospitanti d’oggi, così difficili, potranno diventare materia del nostro cantare?

Per ora è un progetto che accarezzo. Ma sono lieto che piaccia a te e che sia piaciuto anche a Raschi, nostro Presidente A.S.A.C. Raschi, con fine acume, propone di partire dalla scuola, e a giorni gli farò avere qualcosa di più concreto della mia vaga proposta di Castelfranco.

Penso che se riusciremo a realizzare il progetto ci attenderanno eccitanti scoperte (per qualcuno conferme): la lingua musicale conosce vari stadi evolutivi, ma è la stessa in ogni angolo del pianeta.

Domanda. Ritieni immaginabili momenti comuni di lavoro, o di confronto, tra la coralità d’ispirazione popolare ed alcuni cantautori che ‘oggettivamente’ ospitano nella loro produzione musicale temi e riferimenti inequivoci alle esperienze e alle sensibilità popolari sulle vicende collettive delle comunità e sugli individui quali soggetti od oggetti di tali vicende?

Ritengo più plausibile un’osmosi con la musica e la poesia convenzionalmente dette “colte”, come avveniva nel Cinquecento.

Domanda. Su cosa lavora, oggi, il maestro Paolo Bon?

Da un po’ di tempo, quasi nulla di creativo. Con Claudio Malcapi e Alessandro Buggiani stiamo terminando di ordinare il materiale per il volume toscano di “Voci e Tradizioni” da pubblicarsi dalla FE.N.I.A.R.CO.: è stato un bell’impegno, credimi, ed ora siamo quasi in porto. Ma so che anche l’A.S.A.C. è a buon punto.

 

(1)       Da Giancarlo Bregani, ‘Voci di cristallo’, Nuovi Sentieri Ed., 1987, pagg. 78 e 89.

           Da ‘Il canto di ispirazione popolare: verso quale futuro?’, contenente gli Atti del Convegno organizzato dal Coro Plose e dal CAI di Bressanone nel Settembre del 2002.

(2)       Da ‘Il canto di ispirazione popolare: verso quale futuro?’, contenente gli Atti del Convegno organizzato dal Coro Plose e dal CAI di Bressanone nel Settembre del 2002.

 

Qualche nota a margine, perché altri ‘annotino’...

Per chi avrà la pazienza di andarsi a rivedere le precedenti rubriche de ‘La parola ai protagonisti’ sul foglio del ‘Marmoleda’ sarà facile riconoscere nella presente intervista a Paolo Bon, scarna e ‘verace’ tutta, un punto di svolta impegnativo ed affascinante del nostro ragionamento.

Sugli ‘archetipi’ innanzitutto: non c’è più la contrapposizione tra canto popolare e canto ‘colto’, né il primo può essere ascritto alla considerazione sociologica di una comunità stratificata in classi e ceti gerarchizzati, o il secondo ad una ‘élite’ specialistica, formata in ambito letterario. In altre parole (quelle di Paolo Bon), si possono solo avvicinare e distinguere canto e musica di trasmissione orale dal canto e dalla musica affidati alla scrittura.

Per questo -mi sembra di poter capire, ma è impresa non scontata- il musicista non ‘veste amabilmente’ o ‘riproduce’ i tipi musico-corali arcaici (ma spesso si continua a definirli ‘popolari’), i quali invece vivono di vita propria là dove (nel tempo e nello spazio) ebbero vita ed incessante evoluzione, oltre le stagioni della storia e della cultura codificata. Essi possono unicamente, con lo studio e l’affinamento di una percezione di carattere scientifico ed antropologico, essere restituiti ad una lettura ‘grammaticale e sentimentale’, sovente solo emotiva, e così sollecitare, nello storico della musica ma soprattutto nel musicista, ‘altra musica’, altra evoluzione, reincarnazione di moduli espressivi ‘semplici’, inseparabili dagli ambiti espressivi e simbolici, orali e gestuali in senso lato, esistenti da sempre nella composizione ed interpretazione dei segni e delle esposizioni ‘prototeatrali’ con cui il consorzio degli umani sistematicamente rincorse e tracciò il perimetro ed i varchi del suo rapporto con la trascendenza, o anche solo la ‘circostanza’ cosmica a lui sovrastante. Il resto è sovrastruttura. Praticamente nulla di ‘popolare’...

E sul ‘mediterraneum pontum’, il mare  della nostra Venezia e della venezianità: ripensando alla splendida intuizione del maestro Bon (e senza che se ne faccia equivoco, perché seria ed avvincente è la trama culturale da lui a tutti noi ragalata), ho rivisto e considerato con attenzione il ‘rito padano’ dell’acqua che, anno dopo anno, la Lega Nord, capo carismatico in punta di prua, insiste a portare dalle foci del Po alla nostra Laguna, volendo forse alludere ad un circuito salvifico ed identitario che agglutini e protegga le ‘genti padane’. E mi sono convinto dell’errore storico-geologico, e peggio simbolico, di tale supposizione, poiché quell’acqua giunge alla laguna, e dalla laguna al mare, senza soluzione di continuità, senza sbarramenti identitari o autarchici per chicchessia: essa da millenni trascina a valle i materiali e le merci e gli idiomi di tanti popoli diversi, e tutto ciò consente di proiettare sul mare verso altri popoli ed altre rive, e da quel mare riceve inevitabilmente vitalità e relitti d’altre ancora civiltà e suoni ed eventi, e tutto infine, sulle stesse zattere e con le stesse movenze, orali e gestuali appunto, riporta alle origini sue, in un invincibile ed ininterrotto flusso di esperienze, cognitive e ricognitive, delle cose e dei viventi, che nega alla storia e alla cultura che vi si voglia riferire ogni possibilità, che non sia autoritaria o ghettizzante, di separazione ed esclusione artificiose o interessate. Cosicché cultura ed ‘umanità’ non ne siano violentate.

Ma, al di là del dato di attualità che mi serviva unicamente da elemento comparativo, Paolo Bon indica un ambito straordinario di indagine e riscoperta, probabilmente un giacimento vasto di nuova ‘parola’ e di nuova ‘musica’ essenziali, tendenzialmente universali negli stilemi e nei moduli espressivi in esse sepolti, o solamente stratificati, dispersi in una complanarità priva di verticalità, di scavo generoso ed avventuroso.

Una stagione nuova davvero, per uno stuolo di ‘pionieri’, davvero, alla quale voglio sperare la nostra ASAC predisponga tutto il necessario fervore, di progetto e di relazione, ma alla quale non dovrà mancare, a pena di situazioni di stanchezza che potrebbero partorire decadenza, l’adesione convinta dei cori tutti e, a Venezia sicuramente, e responsabilmente, del Coro Marmolada soprattutto.

Il resto dell’intervista parla da sè, e per essa voglio ringraziare il Maestro ed amico Paolo Bon, con un saluto cordialissimo che è di tutti noi.

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