EL CANTO DE LE CANTE

di Carla, Silvia e Ugo Pomarici

 

 

ATTRAVERSO MONTI E VALLI

Date un solo dito a quel nevrotico di mio marito ed egli vi afferrerà braccia, gambe e tutto quello che riuscirà ad uncinare di voi nel più breve tempo percepibile trasportandolo il più lontano possibile, laddove voi non vi immaginereste mai di arrivare.

Questa vicenda che Vi sto ora riportando in tono pacato io l’ho vissuta dentro i contorni fisici di un vero e proprio tornado nel quale mi sono trovata da lui avvolta, coinvolta, trascinata, legata alla corda dei suoi sogni fantastici, avviluppata nel suo magico mantello con cui ci ha fatto volare, me e la nostra diletta figliola, facendoci percorrere, senza poter minimamente reagire, private completamente di autonomia spazio temporale , un viaggio la cui durata ci è sembrata eterna e nello stesso tempo talmente rapida da ritenerla conclusa in un batter d’occhio.

E dire che tutto è nato da una banalità! Non ricordavo le parole di Monte Canino ed invece di andarle a leggere sul libretto delle canzoni, senza pensarci su due volte sono andata a chiedergliele a lui, il Sotutto delle Montagne, il Dizionario vivente della cultura alpina.

Non l’avessi mai fatto! La reazione è stata violenta come…un colpo di cannone, un terremoto, un temporale. Mi sono presa immediatamente dell’ignorante canora che non sa niente di niente di quello che canto né sa nemmeno dov’è questo disgraziato dentoso monte confinario che ad arrivarci ci vogliono “tre giorni di strada ferrata ed altri due di lungo cammino”: poi al mio imbarazzato silenzio “imbriago de graspa quel mostro insultava la moglie fedel” rincarando la dose con la considerazione che le persone come me che si definiscono presuntuosamente appassionate di canti di montagna non dovrebbero iniziare a cantare le canzoni se non dopo averne scritto diligentemente tutte le parole su un quadernetto, un verso per ciascuna riga e averle compitate senza musica più volte fino ad impararle a memoria come le mai dimenticate poesie delle elementari. Fosse finito qui lo sfogo, me la sarei cavata senza troppo danno. Ma il giorno seguente senza preavviso ulteriore è cominciata l’avventura che segue e, alla sua conclusione, il racconto.

Mi auguro che la sua lettura vi dia la stessa impressione che ho provato io durante il viaggio: cioè quella di montare a cavallo di un fascio imbizzarrito di note musicali e di galoppare senza respiro per monti e per valli sentendo cantare e cantando a nostra volta quelle canzoni che mai avremmo potuto pienamente comprendere senza vedere i luoghi che descrivono e dove hanno avuto la loro origine.

Carla Pomarici

EL CANTO DE LE CANTE

Carissime Silvia e Carla, oggi voglio invitarVi a fare un bel viaggio con me. Per poter prendervi parte, occorre lasciarsi trasportare dal potere evocativo delle parole. Sono i nomi dei monti citati nelle canzoni di montagna a costituire il filo rosso della nostra escursione, a suscitare ed evocare nella nostra fantasia le cime, i passi, i boschi, le valli, i torrenti, le cascate, i sentieri, i borghi, le chiese, le fontane: cioè tutte le visioni di quei luoghi che rinfocolano la passione sovrana della nostra vita: la montagna.

Ma - direte voi – noi non siamo preparate per intraprendere questo percorso: si deve andare per monti e per valli “tra le rocce ed i burroni” dove “tira un forte vento” e “dove la neve cade d’istà”: e poi in quei postacci “si mangia mal e si dorme per terra”. Meglio restare a casa riparati e se proprio si ha voglia di cantare, farlo ”intorno al foch” o alla “osteria de la Rosa Bianca”. Ragazze, non abbiate timore, mica voglio portarvi sui monti Carpazi “tra rupi e crepazzi” no. Sono questi monti luoghi troppo lugubri, disseminati di fosse e di croci dove non si ode voce umana se non l’ossessiva ripetizione del “miserere mei Domine”. Nemmeno penso di portarvi sul “Monte Bianco e sul Cervino che il sole indora di buon mattino”: troppo lontani e di ardua scalata; così pure il Gran Sasso e la Maiella anche se la loro ascesa lunga e faticosa porterebbe a credere che “passu passu se saisse all’infinitu”. Anche la Grigna che pure sta a due passi dalla laboriosa e trafficata pianura, data la sua natura “ripida e ferrigna“ ci romperebbe il fiato e le gambe.

Potremmo, questo sì, andare in “Val Camonica del mio cuor” dove ci sono “montagne tute bele” ma poi le Valcamonichine vorrebbero sempre ballare un po’ e ci chiederebbero anche di suonare l’armonica e lì casca l’asino perché noi di ballare e di suonar l’armonica non siamo proprio capaci. A voi pigre veneziane suggerisco “la matina quando el sole se alza e scominza a levarse“ di armare “un batelin da s’ciopo e andare de galopo fin a Fusina” e di qui traversando le valli della placida laguna verso meridione mirare alla foce del Brenta dove un servizievole barcarol ci trasborderà sulla sua barca “piena di rose e fiori e con dentro i cacciatori”. Con loro in lieta brigata risaliremo le anse del grande fiume traversando la pianura su, su fino a scorgere in lontananza le arcate dello storico ponte degli Alpini.

Messa in secca la barca alla prima tosa che passa “sul Ponte di Bassano là ci darem la mano ed un bacin d’amor” ripetuto tre volte (e qualcosina di più se capita). Un saluto più fiero con la mano ancora emozionata dal tocco femminile lo daremo al “monte che addita il cammino”, il Grappa stellato, palestra delle nostre prime arrampicate, e quindi non resta che inoltrarci fra le rinserrate pareti della Valsugana in direzione di quel Trentino la cui aria dovrebbe farci cambiar colore in men che non si dica.

Ma la Valsugana è lunga e cupa (“quando saremo fora?” è la domanda ossessiva che sentiamo) e anche pericolosa: sui ciglioni incombenti dell’Altopiano di Asiago fra la Caldiera e Cima Dodici, sulle doline pietrose dell’Ortigara implacabili cecchini da quasi cent’anni in attesa degli “odiati taliani” altro non attendono se non di scorgerci per poterci sparare “ta-pum” e stecchirci là morti distesi mandandoci alla sepoltura nel “cimitero di noi soldà.” Dall’altro lato non è che vada molto meglio: il grifagno Cauriol impastato “di vento e di neve” erutta spaventosi “bom borom bom” per cui, stretti fra Scilla e Cariddi, non ci resta che trovare una via di fuga risalendo la strada della Fricca e passando sotto la Donna -che- “fila la molinela fin ch’el fuso l’è terminà.”.

Raggiungiamo Folgaria e quindi la Borcola

scendendo in Val Posina e, traversando cento “contrà de l’acqua ciara” dove il chiacchierio delle inconsolabili fontane ci accoglie da lontano, raggiungiamo quindi il Pasubio su cui ci inerpichiamo per la larga strada degli Scarubbi accodandoci ad una “lunga colonna” sino alla cresta sommitale che si srotola come una corda molla in tante cime minori.

Arrivati sulla sommità del Palon, ci spiegano gli alpini che fanno la strada con noi, “soto i Denti ghe xe ‘na miniera” ma non d’oro e d’argento bensì zeppa di gelatina pronta a saltar per aria assieme ai nemici e alla montagna. E gli alpini? “Ma gli alpini non hanno paura” Noi sì, e anche tanta per gli effetti di questa “bomba imbriaga” per cui  zompiamo  velocemente  verso  il Pian de le Fugazze e lì per la Strada del Re ci dirigiamo verso Campogrosso che raggiungiamo a notte inoltrata e con la luce della luna perché, lo si sa, “vien la sera e Campogrosso con la luna xe incantà”. Incanto è sinonimo di silenzio.

Di giorno invece Campogrosso si anima; merli, colombe e rondini sfrecciano “sul coston de la Sisilla“ e tra i roccoli lanciando i loro richiami.

Accompagnati dai canori gorgheggi (la colomba tuba, il merlo zirla, la rondine stride: pur non avendo la stessa livrea fanno parte anch’essi di un coro di montagna) risaliamo le ripide ghiaie del Boale dei Fondi attorniati dalle magiche guglie del “Fumante nuvolà“ e come non potrebbe essere nuvolà una montagna che fuma?

Sulla più alta di queste guglie immerse nella nebbia ci sporgiamo alla ricerca dell’ultima cima delle Tre Croci, da cui si spande un suono argentino: è il tocco della campana situata sulla cima del Gramolon, mossa da ”una mano forte e che ga vinto la morte”. La mano forte di un rocciatore che è salito per la via ferrata o quella più tremula di un vecchierello che ha raggiunto la cima per il sentiero delle capre?

E’ questa montagna assurta alle canzoni alpine per la sua bellezza o perché fa assonanza con dindon? (le assonanze nel canto alpino sono importanti per costituire le rime: l’asinel trotta solo a Montebel, in Paganela no sta vegnir senza putela, a Toblino incorda il mandolino, in Val Dondona… non mi ricordo più).

E’ grazie alle assonanze dimenticate che dal culmine della sonora vetta ho pensato con gratitudine ad una vecchia conoscenza che abita lì proprio di fronte “La me morosa l’è del Monte Baldo” e sarà senz’altro intenta a raccogliere fascine di legna nel bosco perché lei per il mio massimo conforto “la impissa el fogo e mi me scaldo”. Provo un po’ di rimpianto a non averla più vicina a me perché dove “la mete el piè la me morosa ghe nass un fior e po’ghe nass na rosa”, e questa sua dote ci sarebbe servita in quanto essendo il sentiero che porta al Lago di Garda lungo e sconnesso l’avremmo mandata in avanscoperta per poter camminare per ore su un tappeto fiorito senza far soffrire i nostri piedi.

Al lago di Garda abbiamo girato a destra salutati da “un coro de cicioi” e abbiamo preso la via che porta al cuore del Trentino, la Val del Sarca Lì dove laghi, castelli, luna e ragazze si incrociano, la felice commistione inebria i sensi, ispira la poesia ed induce a cantare.

A Castel Toblin dividiamoci i compiti “mi incordo la chitarra, ti incorda el mandolin e nente in barca” e godiamoci questo notturno al chiaro di luna. Quale luogo migliore potremmo trovare per i nostri cuori e cori?: La quiete dell’acqua rischiarata della luce della luna, la musica soave degli strumenti, l’ultima stella che ci saluta sempre con il medesimo accattivante invito “se viodarin diman”. ”L’ultimo quart de luna se cucia drio al Bondon“.

Ci sarebbe da tirar tardi fino al primo sole quando ”la melodia passerà dal sol minor al mi maggior”; ma per un buon alpinista “al cjante el gial, al criche el dì, me tocie partir”.

Da Toblino a Vezzano è un salto breve, ma poi si sbuffa come ciminiere su per l’erta salita che porta prima alla Gazza e poi “senza perder massa tempo alla bela Paganela, leva su, leva su, leva su che leva el ciel”.

Eccoci sulla Paganella: l’apoteosi, l’estasi, il massimo piacere delle visioni-canzoni “Da na banda trenta laghi e d’Asiago l’altipian” e poi subito rischiando il torcicollo e lo strabismo “San Martino e zo zo sin a Milan”. Torrenti, vedrette, ghiacciai, valli e vallette a perdita d’occhio; a un tiro di sasso “le zime del Brenta che le scominza a indorarse”.

E’ giunto il momento adesso di tirar fuori dallo zaino il mantello magico (che è rigorosamente azzurro e tempestato di stelle) ed in un nanosecondo voliamo “sui crozzi a rampegar” quindi allunghiamo il braccio per toccare la cima del Catinaccio, andiamo a merendare sul lago di Monticolo, entriamo in volo radente in Val Gardena dove “le montagne l’è tute d’arzent”.

Ormai penetrati nel tempio dolomitico sfioriamo la Marmolada “ch’ el soregie de ses raies incorona” e più in là veniamo attratti dal luccichio che ci abbaglia: è la baionetta che scintilla dalla vetta della Tofana: mentre sopra la parete della Civetta rifulge la stella di Manuela. Lontano, monarca assoluto ed isolato troneggia l’Antelao “di tutti i monti re”.

E’ ora di tornare a casa. Planiamo verso le Pale sorvolando i prati sui quali i contadini “co la falze e co cossae“ e affilando le lame “co la piera e col martel” celebrano il rito della fienagione sui pendii di Belamonte sotto passo Rolle.

Un brivido di freddo ci risale la schiena mentre passiamo a lato del Cimon de la Pala dove sempre “fis-cia el vento”.

Per un momento sostiamo in raccoglimento presso la piccola chiesetta de Transacqua per ricordare tutti i nostri amici che la montagna ci ha tolto e rinnovare il nostro voto di umiltà e povertà francescana in cambio del continuato godimento del massimo piacere “Cossa importa se go le scarpe rotte se nel fondo del cuor mi son contento“.

Libriamoci ancora in volo infilando il corri-doio della Val Cismon e sfilando in mezzo ai rombi del Cauriol, ma stavolta in tasca abbiamo il gran passaporto che ci permette “o vivi o morti” di ritornare.

Ecco aprirsi dopo Feltre davanti a noi il fiume sacro, la Piave dal mormorio calmo e placido al nostro passaggio. “Siete qui, amici miei, ci saluta” lasciatevi andare alla corrente.

E se per caso foste stanchi “ di qua e di là del Piave ci sta una osteria Là c’è da mangiare ed un buon letto per riposar”. Ma, ahimè non c’è tempo per fermarsi, è ancora la fiumana delle parole a trascinarci giù giù verso il mare. La croce di Nineto a Nervesa, il cimitero di soldati ignoti a San Donà. Sopra quel ponte un monumento: “bersaglier ha cento penne, ma l’alpin ne ha una sola, un po’ più lunga, un po’ più mora sol l’alpin la sa portar”. Le nenie con la sera si fanno sempre più dolci, sempre più chete come l’acqua placida della laguna in cui entriamo giusti all’ora del tramonto.

Se è vero che “barcheta vien, barcheta va” la Silvia va via col sonno “La popa se in dormenza a poco a poco”. Ecco finalmente apparire la nostra valle più amata, appena sopra il pelo dell’acqua spuntano all’oriz-zonte come guglie dolomitiche i campanili della città più bella del mondo. Tutto è ormai silenzio “A plan cale il soreli daur d’un alte mont.“ Che importa se il sole scompare dietro i Colli Euganei anzichè dietro un grande monte? “Na grande pas a regne, che par un son profond” Una grande pace regna che pare un sonno profondo. Anche i canti e le parole si spengono nei nostri cuori.

Ugo Pomarici

LASSU’ SUI MONTI

Carissimi amici, che avete letto il racconto di viaggio di mio papà, io spero tanto che Vi sia piaciuto e mi auguro che anche Voi presto a vostra volta possiate percorrerlo. E’ stata un’esperienza faticosa salire e scendere in così poco tempo tutte quelle montagne, ma Vi assicuro che ne valeva proprio la pena.

Mio papà dice che ho imparato molto, per ché di solito chi canta non sa nemmeno cosa dice e le montagne di cui ripete il nome non sa nemmeno dove sono o le ha guardate appena, appena con il binocolo. Su tante cime e luoghi delle canzoni io non ero mai stata prima e nemmeno sapevo dov’erano: invece dopo il viaggio adesso le conosco bene come le mie tasche Mi sono piaciute tutte e anche i passi, i boschi, i laghi:sento ora quelle montagne più familiari Siamo stati anche fortunati con il tempo: solo qualche nuvola sul Fumante e un po’ di vento gelido sul Cimon de la Pala, ma lì in quei posti le nuvole e il vento sono sempre presenti. Durante il viaggio la mamma ed io abbiamo cantato tanto, anche se la mamma non si ricorda mai le parole giuste: per fortuna c’ero io a suggerirgliele.

Mio papà invece cantava poco: lui dice che l’armonia uno se la deve cantare in testa senza rompere il silenzio, che è una delle tante cose belle che la montagna offre. Credo che mio papà esageri su questo punto. A tre voci la canta sarebbe venuta meglio. Tutto bene, quindi.

Ma una cosa mi ha fatto arrabbiare molto e ve la voglio raccontare. Io a mio papà gli ho chiesto tante volte se mi portava sulla Costa di Fraghina. E’ in quel posto che “ines veies i contea che na olta ie stasea la lusenta Soreghina.” Questa Soreghina l’avrei voluta proprio conoscere perché sta “lassù sui monti dai rivi d’argento” e vive in “una capanna cosparsa di fiori”.

Un posto bellissimo quindi che avrei voluto vedere di persona così come ho visto le valli e i monti del viaggio.

Mio papà lo sa dov’è la Costa di Fraghina, ma non c’e stato verso, non mi ha voluto portare. Gli ho chiesto perché e lui mi ha risposto che tanti anni fa, quando era piccolo, aveva risalito la Costa e incontrato Soreghina. Lei era in mezzo al prato, sfolgorava di luce (perché se non lo sapete Soreghina è figlia del Sole per questo la chiamano lusenta cioè splendente): sorrideva e mandava baci, additandogli le montagne e chiamandole tutte per nome.

Al termine del giorno Soreghina gli aveva confessato di non poter stare con lui per via dell’incantesimo della notte, ma mio papà l’avrebbe potuta reincontrare ogni volta che avesse voluto su ognuna delle cime dove splende il sole. Da quel giorno mio papà, sale non appena può, sale sui monti di tutto il mondo, non per andare in cima come fa credere agli amici, ma per poter incontrare Soreghina di cui si è innamorato. Su ogni cima, forcella, bosco, lago, valle dove splende il sole, lui la trova . Ma ha bisogno di esser solo, perché Soreghina, che è bella ma è timida non vuole apparire davanti a nessun altro se non al mio papà. Quando s'incontrano, si prendono per mano, scherzano, ridono, parlano, cantano; e poi stanno zitti e si guardano: e poi guardano il sole (che è il suocero del papà) all’orizzonte fino a quando lui torna a casa tramontando. Allora è il tempo di lasciarsi e il papà saluta Soreghina come si saluta la stella del mattino: arrivederci ancora, ci vedremo domani e mentre Soreghina rientra nella capanna cosparsa di fior lui cala giù dalla montagna. Ma quando è giù vuol tornare su. E non sta buono finchè non gli riesce di scappare di nuovo per andare a trovarla. Soreghina è un amore assoluto ed esclusivo che lui non può condividere con nessuno perché, così dice lui, ogni persona deve saper trovare la sua Costa di Fraghina e la Soreghina del proprio cuore. Mio papà è un infame egoista a non indicarmi dov’è la Costa de Fraghina ma prima o poi lo scoprirò, quel sentiero, e lo salirò cantando.

Silvia Pomarici

 

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