"La ciarastela"                                                                                                                                                                                                                                Torna all'elenco

di Sergio Piovesan

 

Nel mondo agricolo sono esistiti, da sempre, dei momenti rituali ciclici che si svolgevano nello scorrere del calendario e legati alla successione degli eventi naturali; con l'avvento del cristianesimo è lo svolgersi della vita di Cristo a sovrapporsi.

Si tratta quindi di momenti rituali che iniziano con il solstizio d'inverno -ed è quello che al momento c'interessa- per proseguire con gli altri riti del resto dell'anno.

Uno di questi riti era il canto della "Chiarastella", di origini antichissime, che veniva eseguito per la questua di fine anno nelle campagne venete, ma che si ritrova in tutt'Italia e propagato, poi, anche altrove.

I protagonisti erano, in genere, persone adulte che, solo successivamente, furono sostituiti da bambini e ragazzetti.

I versi del canto erano ispirati al Natale, dal viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme alla nascita ed all'Epifania, con il contorno di angeli, pastori, comete e magi.

Non si tratta, però, di un unico canto, ma di "edizioni" diverse, nei tempi, nello spazio e nel linguaggio, dovute ad interpretazioni dei testi sacri, magari storpiati, creando, così, dei lemmi che oggi ci sembrano incomprensibili, con differenziazioni sensibili da una borgata ad un'altra.

Cosa sia poi la "chiarastella", o "ciarastela", anche questo dà adito ad interpretazioni diverse in quanto c'è chi la individua nella stella cometa e chi, invece, nella stella costruita con listelli di legno e carta, con all'interno una candela, ed issata su un'asta alla testa del gruppo di questuanti.

L'edizione che esegue il "Marmolada" è quella raccolta ed armonizzata da Gianni Malatesta, un'edizione padovana, che inizia con "Semo qui co 'na gran stela"  indicando nella seconda interpretazione quale sia la stella; continua, quindi, con il perché siano lì, cioè

 

"... per doràre Maria e Gesù,

per portare la novèla

che nato el Redentor".

 

Le strofe di questa edizione sono ben otto e, musicalmente, tutte uguali; per questo motivo, il Coro Marmolada ne esegue solo alcune ritenute più significative, ed anche indispensabili, nel contesto del racconto della Natività. (vedi testo in nota) [1]

La seconda strofa vuole raccontare il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme, fra boschi e grotte in una stagione invernale.

Si arriva quindi alla nascita del Salvatore e, nell'ultima strofa, si vede, come appare in molti dipinti, l'adorazione dei pastori con gioia ("... i faxéa alegria ...") cantando "Gloria in excelsis Dei" che, nel canto popolare, viene storpiato in "... in acésis Dei".

 

Il canto della "Ciarastela", come si diceva prima, era espressione del mondo contadino e, quindi, non conosciuto e non cantato nel mondo cittadino, se non negli ultimi decenni come espressione corale e di ripresa delle tradizioni. Per questo motivo, il sottoscritto, vissuto sempre a Venezia, non ha esperienze di questa tradizione e, pertanto, vi rimanda più sotto all'articolo dell'amico Giovanni Lucio, cavarzerano, che ricorda la "Ciarastela" della sua giovinezza.

 

NOTE

[1]              Il testo de “La Ciara stela” armonizzata da Gianni Malatesta nell’interpretazione del Coro Marmolada

Semo qua co 'na gran stela

per doràre Maria e Gesù,

per portare la novéla

che nato el Redentor.

Caminando giorno e note

come fresca la stagion,

par i boschi e par le grote

senza vedar la procession.

Arivài a la capana

Madre Maria se lamentò,

la ghe dixe al so amato sposo

“mi so stanca de caminar”.

Co' fu stata mesa note

madre Maria si risvegliò,

si svegliò con gran splendore:

jèra nato el Salvator!

I pastori faxéa alegria

al divino Salvator

i cantava "in acésis Dei",

i cantava de vero cuor.

 

 

La “Ciara stéa: ricordi ed emozioni

di Giovanni Lucio

 

I ricordi del canto della Ciara stela sono, per ragioni anagrafiche, un po' lontani nel tempo, un po' sbiaditi come si dice, tuttavia non del tutto annullati e recuperabili, magari a frammenti, nel vasto  prato della nostalgia del passato dove tutto ci sembra essere stato migliore, più bello ed invece è solo perché quel luo- go, quel tempo si chiama giovinezza (non quella che volevano ricantare al prossimo festival della canzone di San Remo).

Allora: la costruzione della stella.

Per prima cosa bisognava procurare dei listelli di buon legno da consegnare a chi, provvisto anche dei necessari attrezzi, fosse in grado di costruirne il telaio a cinque punte.

Non era impresa da poco perché dove- va essere abbastanza grande ma leggera, in quanto la si portava in giro per le strade fissata su di un asse verticale per almeno un paio d'ore ogni sera e per una decina di sere, ma allo stesso tempo doveva essere robusta e fatta ad arte specialmente nella zona centrale dove convergono le basi dei triangoli delle cinque punte e dove le pareti dovevano avere fra di loro una precisa distanza  perché lì all'interno si collocava poi il supporto per il cero che doveva illuminare la stella.

Anche se, a dire il vero, negli ultimi tempi il cero era stato sostituito da una torcia a batterie collegata con un filo ad un interruttore (un pereto) che teneva in tasca chi portava la stella; così non si rischiava più che le pareti di carta bruciassero o che la cera del grosso lumino colasse a forarla e, peraltro, la si accendeva solo quando si raggiungeva l'abitazione dove ci si fermava a cantare.

La carta era rigorosamente di colore rosso ed era “carta veina”, che si comprava, partecipando al costo in parti uguali, in quantità superiore allo stretto necessario perché poteva comunque accadere che si bruciasse o strappasse e perché con quella che rimaneva dopo il periodo natalizio, qualcuno si costruiva, in primavera, l'aquilone (el bacaeà) da liberare nel cielo al primo spirare di brezza.

Ovviamente la colla necessaria a fissa- re fra loro i vari ritagli di carta e la stessa sul telaio assieme a qualche “brocheta” (puntina da disegno), la colla, era fatta con “fiore” (farina doppio zero) e acqua.

In possesso della stella, ci si incontrava in quattro-cinque non appena faceva buio e si valutava dove andare, evitando la zona centrale del paese dove abita- vano le famiglie più benestanti ma con tendenza a snobbare i cantori della “Ciara stéa”, nelle borgate, da raggiungere camminando su strade bianche e prive di illuminazione, dove vivevano i meno abbienti ma più sensibili e generosi.

Bisognava inoltre tener conto di dove andavano o erano già andati altri gruppi con la loro ciara stéa.

Era quindi anche una questione di concorrenza.

E bisognava saper “toccare” l'animo, la sensibilità di chi ci ascoltava, ovvia- mente in funzione di ciò che alla fine ne avremmo ricavato; spesso niente ...

E allora, ricordo, qualche sera il gruppo  si arricchiva di un suonatore dilettante di spineta (armonica a bocca) o di fisarmonica.

Il testo e l'armonia del canto variavano in funzione della zona del paese dove si andava.

Mi spiego: Cavarzere, dove ho vissuto la mia gioventù, è al limite della provincia di Venezia e confina con le provincie di Rovigo e Padova.

A volte quindi si cantava pure noi la versione padovana, quella riproposta dal maestro Malatesta col suo coro “Tre Pini” ed ora entrata a far parte anche del repertorio del “Marmolada”.

Non ricordo la versione rodigina.

Ricordo però che, specialmente nella versione cavarzerana della “ciara stéa” (per noi non ciara stela) e forse più che in quella padovana, le parole apparivano storpiate ed i versi sgangherati, anche se non privi di nesso logico.

Eccone la dimostrazione, questo cantavamo:

“E' la note di Natale,

una messa vorei cantar.

Canta canta rosa in fiore,

che xe nato el nostro Signor.

El xe nato in una stala,

fra il bue e l'asinel.

La pareva na gran sala,

preparata par se e par .

Poverella in questa ,

ghe domando la carità. (due volte)

Non c'è pani non c'è fuoco,

non c'è fuoco per riscaldar.

La sua mama poverella,

non sapeva più cosa far.

La si leva il velo in testa

per poterlo ricoprir.

La pareva na gran festa

preparata par se par .

Poverella ecc.

E si cantava spesso a squarciagola per farci sentire da chi se ne stava rinchiuso in casa e magari già a letto (non c'era la televisione), e per superare nelle borgate di periferia l'abbaiare dei cani.

Alla fine, senza più voce, piedi e mani indolenziti dal freddo si tornava a casa.

Assieme a tanti “grassie putei, bone feste anca a voialtri”, poteva anche accadere che ci si dividevano poche lire.

Ma ci venivano offerte pure delle salsicce, dei “museti” (cotechini) - qualcuno nelle frazioni aveva da poco tempo “copà el porseo” (ucciso il maiale per uso domestico) - e del vino e magari qualche bossolà di pane cotto nel forno a legna. Queste cose le mettevamo in una sporta di paglia per portarle poi a casa di qualcuno del gruppo, in custodia dei suoi genitori fino alla fine dell'anno quando ci si riuniva per una cena in attesa del nuovo anno.

Poi tutto è cambiato, velocemente.

E' arrivato il benessere. E se ne sono andati i presepi dalle case sostituiti dagli alberi di Natale, il canto della ciara stéa nelle strade sostituita da “Tu scendi dalle stelle”, “Bianco Natale” e altre cante note in tutto il mondo e tutte cantate in chiesa, al riparo  dal freddo, magari a più voci, magari pure a voci miste: maschi e femmine, con un pubblico silenzioso, pervaso di mistica attenzione.

Ma l'assenza delle voci della ciara stéa nelle strade del paese e delle borgate spogliava il tempo del Natale, almeno per me, di gran parte dell'emozione e della sacralità della ricorrenza di un grande avvenimento.

E' vero che si cantava per ricevere delle offerte, ma il canto era “partecipato”, perché cantavamo la nostra condizione umana.

Anche noi avevamo poco da mangiare, le case male o affatto riscaldate e avevamo poco di che vestirci.

Allora, nessun rimpianto, ovviamente, dello stato di indigenza, solo la nostalgia di un'atmosfera del tutto particolare, forse solo nostalgia della giovinezza, certamente del canto della ciara stéa.

Attorno agli anni settanta però, il canto della ciara stela l'ho ritrovato a Caz- zago, frazione del comune di Pianiga (VE), dove mi ero trasferito con la famiglia e dove un gruppo di parrocchiani ancora lo ripropone ogni anno di via in via reggendo, ahimè, una stella di polistirolo rivestita di carta argentata e raccogliendo offerte in denaro per le necessità della parrocchia e offerte di altro genere consumate poi in una cena conviviale.

Ho fatto parte del gruppo (prima che la stella diventasse di polistirolo) e, anche se versi e melodia non erano quelli della ciara stéa cavarzerana, quella che cantavo da ragazzo, ho rivissuto passate sensazioni, vecchie emozioni.

Che rivivo ora più intense che mai quando con gli amici del coro “Marmolada” canto:

Sémo qua cona gran stèla

par dorare Maria e Gesù.

Par portare la novela

 

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