Chi ze stà, chi ze stà, Maria ?....  Testo e musica di Bepi De Marzi                                Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

 

“ … La 29enne ricercatrice torinese Valentina Tarallo è stata uccisa l’11 aprile. Quella maledetta sera la giovane ricercatrice italiana stava rientrando a casa dopo una sessione di allenamenti in palestra quando è stata colpita alla testa con una spranga di ferro… … A Miravalle di Molinella, in provincia di Bologna, il 52enne tassista Andrea Balboni ha  confessato di aver ucciso la moglie Liliana Bartolini al termine di una furiosa lite, dichiarando che lei l’aveva aggredito e l’aveva accusato di avere una relazione extraconiugale… … In Brianza il 73enne pensionato Giuseppe Gallina ha prima ucciso la moglie recidendole la gola con un coltello da cucina e poi si è suicidato… …

Fabio Piacenti e Paolo De Pasquali (in ‘ Rivista Italiana di criminologia ’) focalizzano l’attenzione sulla spaventosa realtà italiana per gli anni dal 2000 al 2012. Nel periodo si contano in Italia 2.220 donne vittime di omicidio, una media di 171 vittime annue. Il femminicidio, in Italia così come in generale nei Paesi Europei, risulta prevalentemente circoscritto nell’ambito domestico, risultando oltre 7 vittime femminili su 10 uccise nel contesto familiare. Le donne assassinate dal partner  rappresentano il 66% degli omicidi domestici … … Il 2013 è stato un anno nero, con 179 uccisioni … … Secondo il rapporto Eures nel 2014 ci sono stati 152 casi … … Nel 2015 sono state 128 le donne uccise in Italia … … E nel 2016 i numeri non danno tregua, anzi … …”

In questi casi almeno si sa chi si sia macchiato degli orrendi delitti, quasi sempre, ma numerose sono le povere ammazzate abbandonate come stracci da qualche parte, o annientate nella loro stessa fisicità e sottratte al pianto di chi le amava, senza che il mascalzone responsabile dell’eccidio abbia un volto che possa essere disprezzato e una giusta pena da scontare.

Come nel caso della Maria cantata da uno straordinario De Marzi, con gli accenti di un sentimento universale, di un risentimento etico e umano che travalica il tempo e il luogo, diventando identificazione antropologica assoluta, pietas luminosa e assorta, limpida coscienza morale.

Chi ze stà, Maria!?...”: il canto si apre con un accento accorato, la sorpresa inaudita di un passante – forse il contadino di ritorno alla propria casa dai lavori nel podere, oltre la carraia che porta al paese rasentando un fossatello – e subito dopo l’urlo angoscioso, lo sbalordimento di un’abitudine comunitaria tranquilla, ove tutti conoscono tutti: i saluti sul sagrato la domenica della messa grande, gli uomini a parlar del lavoro, di bestie e di terra, le donne, con i più piccoli attorno a schiamazzare, intente al racconto delle più intime storie familiari, “ chi ze stà che te ga bandonà!...su la strada de casa, dopo mezanote…col vento che tirava

La chiama per nome, con l’aspra emozione che si prova all’impatto con il peggiore atto di crudeltà, la riperpetuazione dell’uccisione ‘ di uno di noi ’, ancora un Abele sacrificato all’odio accidioso di un fratello perverso, ma una ragazza qui, sola, a notte inoltrata, seminuda sulle ghiaie del tratturo, noto da sempre, e fin lì datore di una quotidiana convivenza.

La guarda con l’orrore della riapparizione di un male atavico, tante volte esorcizzato e ora radicalmente concreto, forse gli bastano i capelli arrovesciati a coprire un volto stremato, ingrigito dalla contiguità innaturale di quel ghiaino su cui posa innaturalmente, forse quel che resta di un lembo di gonna già osservato al mercato, o a messa, per riconoscerla, “Maria!”. E allora, in uno strazio senza limite, con lo stravolgimento di sè medesimo, del proprio connotato di uomo di borgata incapace di accettare quell’estetica orribile di una terra lorda di sangue e di brutale carneficina, non riconoscendo più i tratti di un paesaggio altrimenti e fin lì protettivo, garante, non può trattenere l’altro urlo, l’altra constatazione, distruttiva della cultura sociale, della consuetudine solidale di cui si sente, si sentiva fino a quel momento, propaggine chiara  e geloso conservatore, “ chi ze stà che te ga bandonà!....senza scarpe nel fosso…soto tanta neve…co poca roba indosso

Un urlo, il tentativo estremo di sapere da lei, da quel corpo maltrattato che nulla può dire, nemmeno piangere sulla propria sorte, invocazione senza risposta che, anche nel canto, si fa lieve fino a serrarsi in gola, “ chi ze stà che te ga copà? “,  forse per non voler più altro osservare, niente più ammettere, abbandonandosi all’unica consolazione e difesa possibile, quella della ‘comunità buona’, della ‘ bona zente ’, della ‘ zente di montagna’, alla quale rivolge l’unica speranza accettabile in tanta distruzione, quella di restituire alla povera Maria la culla e il ricetto salvifico dal quale essa aveva ricevuto respiro vitale e certezza d’amore: “ compagnéla da so’ mama…compagnéla su in contrà ”. La preghiera infine, raccolta, modulata a fil di voce, come la più tenera delle carezze all’oggetto di quell’amore straziato: “ desso cantéghe…la ninanana…desso cantéghe…la ninanana… “.

 

 

Come sempre avviene nella poetica di Bepi De Marzi, anche quando i toni hanno l’apparenza di mosse burlesche, o la leggerezza sorniona dell’ammiccamento sensuale, perfino irriverente, il cerchio della vicenda cantata, e del vissuto in essa trasparente, si chiude intorno a forti imperterriti riferimenti valoriali e sociali, quelli di una società, minuta se vogliamo, forse epigona della lunga epopea contadina, e non solo del nostro veneto, per la quale gli appoggi su cui conoscere ( l’infanzia ), sperimentare ( la maturità storica e individuale ), fare sintesi ( del dato e dell’avuto esistenziale ) sono pochi e decisamente connotati, certezze insomma, percepibili anche dietro le luci e i rumori di una modernità che sembra lanciata ‘ oltre ’ quegli assimilati sentieri, verso una commistione di successi e guadagni, di vantaggi e agi altrove impensabili, ma pure di smarrimento etico e morale, di deviazione grave che sovente vorrebbe, e vi riesce, smantellare quegli stessi valori, a danno definitivo del diritto di tutti, dei più esposti particolarmente, di tante donne e tanti bambini recentemente,  alla propria libertà personale, all’integrità fisica e culturale, a una comunità solidale che riduca le differenze e le separazioni gravi, tra individui e tra comparti sociali, recuperando e coltivando indefessamente, ostinatamente, l’intimità familiare ( intorno alla certezza materna ), l’attenzione e la reciprocità ( intorno alla ‘ contrà ’, alla borgata operosa e affidabile, a un concetto di comunità sociale e socievole, non distratta, non indifferente), la speranza e il diritto a una sopravvivenza che salvi noi stessi salvaguardando l’ambiente naturale, le sue acque, i suoi animali, le creature tutte intorno a noi umani, così fragili eppure arroganti nel procedere nella comune vicenda storica, per quel poco che ci è dato di incidervi, giorno dopo giorno.

Amore e tenacia, nell’agire e nel suggerire, chiamare, esortare, mai sospeso ma ora, in un De Marzi ricco di una lunga densa saggezza, in una instancabile passione culturale e civica, di nuovo forte, anche enfatica, quasi un qualcosa che fa pensare ad un lascito filosofico e spirituale al quale egli tiene molto, e che sembra davvero, anche con un fare musica denso, ispirato, illimitato quasi nel suo inseguire con le note e le parole la sintesi necessaria di tutto un percorso esistenziale e culturale, egli cerchi, con qualche angoscia, pur attutita dalla leggiadrìa del tessuto armonico e comunicativo, di ‘ affidare ’, perché rimanga e resista quel suo messaggio: in fondo una dichiarazione d’amore per la vita e la bellezza di quanto esiste attorno a tutti noi, e il richiamo vibrato, l’urlo appunto, ad agire, in ogni modo, perché tutto ciò sopravviva a quanto di negativo questa stessa umana vicissitudine penosamente, inconsapevolmente, colpevolmente anche, va progettando e producendo, fino ad oscurarla, non poche volte, la speranza.