Accanto alle tradotte in partenza: gli addii                                                 Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

Addio mia bella addio / che l’armata se ne va / e se non partissi anch’io / sarebbe una viltà….io non ti lascio sola / ma ti lascio un figlio ancor / sarà quel che ti consola / il figlio dell’amor ”….Quasi un’ouverture, per la nostra ricognizione.

Chi non ricorda quest’immagine della partenza per la guerra: il soldato ( quasi sempre l’alpino ) che stringe tra le braccia e bacia la sua amata, con il trasporto e l’angoscia di chi sente su di sé la vicinanza di un destino indecifrabile ed ostile, dal quale potrebbero essere annullati gli elementi costitutivi di un’umana felicità, quella data dalla famiglia, e la paura di non vedere la nascita del suo bimbo, del quale già parla come di un  qualcosa che potrà sostituire per la mamma e la sposa la sparizione del papà e del marito. La canzonetta non appartiene al patrimonio dei canti alpini: come tanti motivi divenuti popolari nell’uso, trasmigra di stagione in stagione, ma fu cantata inizialmente dai volontari di Curtatone e Montanara, in quel 1948 della prima guerra d’Indipendenza che vide i volontari toscani e napoletani impegnare con estrema determinazione gli Austriaci, così consentendo ai Piemontesi di concentrarsi e vincere a Goito.

Ebbene, vi si percepisce un’immediata risonanza emotiva che riflette il sommovimento ideale di quei propugnatori del moto indipendentista, ma esso viene trattenuto in un ambito umanissimo dal riferimento al prezzo che la guerra richiederà, non tanto a luminose attese di conquista o ad altri ‘fatali destini’…

 

 

Ed ecco l’altro incipit, l’apparire dell’impatto con la guerra distruttrice e crudele, disumana perché estranea all’umana condizione della gente comune: “ Addio padre e madre addio / che per la guerra mi tocca di partir / ma che fu triste il mio destino / che per l’Italia mi tocca di morir….lascio la moglie con due bambini / o cara mamma pensaci tu / quan’ sarò in mezzo a quegli assassini / mi uccideranno e non mi vedrai più….sian maledetti quei giovani studenti / che hanno studiato e la guerra han voluto / hanno gettato l’Italia nel lutto / per cento anni dolor sentirà… ”.

Qui ancora – siamo nel primo conflitto mondiale – domina il rifiuto della guerra, spontaneo, forse anche oppositivo e critico sulle ragioni addotte per giustificarla agli occhi del popolo, e sui portatori di tali ragioni, gli ‘studenti’, insomma il ceto intellettuale dirigente dell’Italia risorgimentale che non ha ancora potuto renderne protagonista e responsabile il popolo tutto ma vuole, per cultura e consapevolezza storica, quella guerra, così disastrosa soprattutto per la povera gente, dalle Alpi alla Sicilia, come si suole dire per significare il contributo ad essa offerto da tutti gli italiani. E colpiscono la nostra immaginazione due elementi per questo punto di vista evidenti: il nemico è assassino, lo stesso pensiero del contadino austriaco chiamato alle armi, ovviamente, e l’accorato, universale affidamento alla matrice della vita personale e familiare, la mamma, della cura e della vigilanza sui figli e sulla moglie che si abbandonano inevitabilmente.

 

Guerra atroce, quella, storicamente ascrivibile a un legittimo processo di identificazione e costituzione di ciò che oggi chiamiamo Italia, almeno fintantoché il sentimento di tale legittimità non fu alienato dal ventennio fascista in nome della nuova stagione degli imperialismi e dei colonialismi che avrebbe portato al secondo conflitto mondiale, ancor più devastante, anticipatore dell’incubo nucleare che tuttora ci sovrasta. Guerra che, per le devastazioni e i lutti indotti, fu essa stessa materia e ispirazione di un’epopea popolare e nazionale, drammatica e identitaria insieme, dalla quale la canzone popolare trasse intensissima ispirazione.

Si può dire che, se la guerra ‘ non merita canzoni ’, essa però, come sempre nelle epopee degli umani, offerse spunto ed occasioni infinite al cantare e alla canzone, quanto meno perché un cuore gonfio di disperazione o di struggente nostalgia ‘vuole’, dal tempo dei racconti rupestri in su, affidare ‘a chiunque ascolti’ la propria voce, anche di imprecazione, più spesso il richiamo alle cose più care e irraggiungibili.