Monte Canino                                                                                                                            Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

Come ne “ La tradotta ”, altro canto fondamentale della letteratura e della storia collegate alla Grande Guerra, anche in “ Monte Canino ” si avvertono il dolore e l’oscuro impersonale destino imposti dalla storia dei ‘grandi’ ai personaggi ‘minori’ della vicenda umana di popoli ‘scagliati’ l’uno contro l’altro: l’esodo di massa, il sacrificio senza prevedibile salvezza…

Dei grandi, prevalentemente, poiché le speranze irredentiste e ‘nazionali’ in senso propriamente politico appartenevano sostanzialmente a minoranze, se di comunità e popolo si parli, com’è giusto, anche in termini di numeri semplici, non limitandosi, per semplificazione o interessata appartenenza, alle élites accreditate di effettivo valore sociale e reputazione economica o istituzionale.

“ I soldati sedevano silenziosi, fumavano, guardavano dal finestrino; molti stavano addentando con polli e ciambelle, metodici nel tributo d’omaggio alla cucina materna; tenendo a mezz’aria una fetta d’arrosto o di salame casalingo, masticavano lentamente, guardando a occhi socchiusi la campagna placida. Da qualche vagone veniva la voce di piccoli gruppi che s’ostinavano a cantare vecchi ritornelli militari, ma senza entusiasmo…l’ordine di partenza era giunto improvviso, e per due giorni era stato tutto un correre, apprestare, affannarsi per un minimo d’equipaggiamento…”: così infatti Virgilio Savona e Michele Straniero, ricercatori di eccellenza nel nostro campo, presentano ‘La tradotta’, con parole che valgono senz’altro a incorniciare il contesto, e l’interiore soffocato risentimento, umano e storico, nei quali prende vigore e tensione emotiva il fatto, tutt’altro che limpido e rassicurante, della partenza di tanto popolo, di contadini in gran numero, giovanissimi, anche padri di famiglia, verso l’incognita somma, la guerra, per una patria spesso non del tutto compresa nel loro immaginario e nel loro povero ‘sapere’.

Vi si parla della vita dei soldati nella grande guerra, mesi in trincea, nella neve, con un freddo terribile e panni desolatamente insufficienti, la paura dell’assalto al buio, del colpo inevitabile del coltello dell’incursore, la fame, una solitudine aspra: raccontare tutto ciò è giusto e utile, è lo stesso testo a pretenderlo, semplicemente, per il bisogno di ottenere almeno la comprensione di chi al posto del ragazzo di trincea può riposare nella propria casa…

Ancora la speranza che cozza contro il clangore delle armi che tutto copre, costringe all’incertezza,  senza che basti il richiamo all’eroismo ‘di corpo e d’arma’ ( dopo tre giorni di strada ferrata / ed altri due di duro cammino / siamo arrivati / sul Monte Canino …. se avete fame, guardate lontano / se avete sete, la tazza alla mano / che vi rinfresca la neve ci sarà ), e, improvvisa, la folgorazione di un evento prevedibile e per molti, prima, già funesto: il nemico ad aspettare sul confine, con la medesima angoscia e rassegnazione che solo può estinguersi con l’annientamento dell’altro, senza rimedio, inutile a quel punto ogni perché, ogni obiezione…

Non varrà, in quei momenti assoluti, della vita di uno a patto che si cancelli quella dell’altro, figlio di una povera sudata terra di fronte ad un altro come lui ma ‘dall’altra parte assegnatagli’, il mutuo riconoscimento del comune diritto alla vita e agli affetti fondamentali, non potrà valere, a prezzo della vita, il minimo istante di umana compassione, come straordinariamente in ‘altra’ canzone Fabrizio D’Andrè è riuscito a rappresentare, imprimendo in milioni di giovani del ‘ dopo ’ l’esigenza di un rifiuto morale assoluto della guerra in quanto tale:

“… ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera
e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore:
sparagli Piero , sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue,
e se gli spari in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
 gli occhi di un uomo che muore,
e mentre gli usi questa premura
quello si volta , ti vede, ha paura
ed imbracciata l'artiglieria
non ti ricambia la cortesia:
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato,
cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno …”

 

Non ti ricordi quel mese d’Aprile / quel lungo treno che andava al confine / e trasportava migliaia di alpini / su su, correte, è l’ora di partir ”… rimane solo il traguardare, con il cuore in sussulto, oltre il finestrino della tradotta, o la feritoia della garitta, laggiù, dove si apre la valle natìa, per convincersi di ritrovare l’apparizione rassicurante dei giorni di pace…