Le voci di Nicolajevka

Quando la canzone d’ispirazione popolare attinge alla ‘profezia’ - Testo e musica di Bepi De Marzi                                      Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

L’occasione: Quando uscirà questo articolo avremo ancora a mente la grande adunata nazionale degli alpini di Treviso, 12, 13, 14 maggio. Centinaia di migliaia di baldi e simpatici ‘combattenti di pace’, portatori di inattaccabili valori morali e patriottici, con lo sguardo alto sulle sorti del mondo intero ove sono tanti di loro impegnati, così come lo furono i ‘ veci ’ in tante drammatiche pagine di storia. Per riferirmi a tutto questo ho scelto di commentare, oltre il dato meramente tecnico, una canzone altamente simbolica del ‘valore alpino’, di una delle stagioni più cruente e tragiche di tale arma, quella scatenata dalla follia della guerra mussoliniana, a braccetto con il delirio omicida hitleriano, e di una fanatica assurda allucinazione di potere senza limiti né contraddittorio, a costo di milioni di morti e dello sterminio parzialmente riuscito di un intero popolo, quello ebreo.

Il momento storico.

Da un intervento sulla Stampa del 23 gennaio 1963 di Nuto Revelli, che fu ufficiale alpino del Tirano in quella ritirata e poi partigiano: «Tutti eravamo più o meno congelati. Il nostro equipaggiamento, già disastroso all'inizio della ritirata, era ridotto a brandelli. Durante gli otto giorni di marcia, quasi tutti avevano gettato gli scarponi di tipo "standard", uguali per la Russia come per l'Africa, perché i piedi congelati gonfiavano, e li avevano sostituiti con strisce o involti di coperte. C'era anche gente scalza o con i piedi fasciati di paglia. Sotto i cappotti con l'interno di pelliccia indossavamo divise di falsa lana, dura come spilli. Gli unici indumenti caldi erano le calze e le maglie che c'eravamo portati da casa nostra al momento della partenza dall'Italia….

Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio ( 1943 ), la temperatura riprese a scendere, sui 30° sottozero. Io dormivo in un'isba alla periferia di Nikitowka, verso Arnautowo. Eravamo una trentina, accatastati uno sull'altro…. Verso l'una sentimmo gli scoppi vicini, come di bombe a mano. Qualcuno disse che c'era l'allarme, ma eravamo disfatti e nessuno ebbe la forza di alzarsi. In quel momento era iniziata la battaglia per Nikolajewka…. Lo scontro durò violentissimo sino alla tarda mattinata. Gli ufficiali andarono all'assalto alla testa dei loro alpini, con le armi che per il gelo si inceppavano.

Mentre si combatteva sotto il tiro degli anticarro e delle mitragliere russe cercando di superare il terrapieno, il generale Nasci ordinò di gettare in avanti tutto il peso della sterminata colonna degli sbandati. Migliaia di uomini, in uno spaventoso groviglio di slitte e muli, rotolarono urlando verso il trincerone della ferrovia. Alla testa erano i generali Reverberi e Giulio Martinat, capo di Stato Maggiore del Corpo d'Armata Alpino. Con loro erano i capitani Giovan Battista Stucchi e Giuseppe Novello e altri ufficiali della "Tridentina". (…)

“ Le perdite italiane furono altissime, ma nonostante ciò la battaglia rappresentò un successo poiché le truppe superstiti, pur decimate e completamente disorganizzate, riuscirono a raggiungere Shebekino il 31 gennaio 1943, località al di fuori della "tenaglia" russa. Il 16 gennaio 1943, giorno di inizio della ritirata, il Corpo d'Armata Alpino contava 61.155 uomini. Dopo la battaglia di Nikolaevka si contarono 13.420 uomini usciti dalla sacca, più altri 7.500 feriti o congelati. Circa 40.000 uomini rimasero indietro, morti nella neve, dispersi o catturati. Migliaia di soldati vennero presi prigionieri durante la ritirata e radunati dai sovietici in vari campi ”….

 

“Nicolajevka”.

La ‘sacca’ dell’ultima speranza di sopravvivenza. Un’epica tremenda, la tragedia di un popolo di alpini accerchiato e quasi annientato dalle atroci sofferenze di una guerra idiota e mal governata, inchiodati dal ghiaccio dell’inverno russo alla fame e alla dissoluzione per freddo, azzannati passo su passo del Calvario di una disperata fuga dalla controffensiva russa che non poteva distinguere tra quegli uomini d’onore e chi li aveva scaraventati in un’aggressione perversa, un salto nel vuoto oltre il quale potesse avverarsi il sogno della sopravvivenza, del ritorno alla vita: tutto racchiuso nel rincorrersi senza fine, nella canzone, di quella sola parola, di quell’urlo immane dietro il quale scagliare tutta la forza residua, e la disperazione, per trovare un varco, ad ogni costo, perché tutto il dolore e tutta l’amarezza erano state provate, fino all’ultimo fiato, oltre le mille parole di una folla di morenti, oltre l’assurdo. Nicolajevka! Nicolajevka!....Nicolajevka!....

 

Le voci di Nicolajevka, ove la musica, quasi universo materico che avvolge e sublima un’intera epopea di uomini, si libera anche della parola, riproponendo in un’armonia integrale, in un unico ed unitario vortice sonoro che a me riporta il pathos e l’enfasi etnica dei cori della tragedia greca, gli strappi e gli unisoni di un’arpa cosmica, dell’eco di noi, creature indisponibili allo smarrimento di un destino non limitato alla storia contingente, nel grande processionale delle umane epiche, alla corte di Omero e degli eroi simili a dei.

 

In canti come questo si ritrovano le ispirazioni e le attitudini per un canto corale di ispirazione popolare  “modernamente” suggestivo, per la discontinuità della melodia e dei contesti armonici e per l’aggiornata poetica dei testi, i quali trattano di guerra, ma alludendovi in senso universalistico, e sono collegati a un “risentimento interiore” di essa post-risorgimentale e post-unitario, formatosi negli anni della “guerra fredda” e del ricorso sempre più frequente a strategie ed organizzazioni belliciste di carattere globale, in sostanza alla sensazione drammatica del fatto che, oggi, qualsiasi politica di guerra assume un carattere di oscuramento e negazione della speranza di vita per intere generazioni, su scala planetaria.

Non rimangono forse del primo tremendo olocausto nucleare, simbolicamente e moralmente, due semplici parole? Hiroshima…Nagashaki!

 

Anche se la storia non sembra riuscire buona maestra, magistra vitae ci spingevano a credere, a replicare nella relazione sociale, per riconoscerci buoni discepoli del buon insegnamento. Nella debolezza diffusa delle democrazie di un secolo che aveva saputo – e ne mostrava vanto - non ripiombare in una guerra deleteria, la terza guerra di un mondo che pare troppo spesso votato all’autodistruzione, rinascono le teorie definitive, indiscutibili; personaggi pronti al rischio-limite occupano volitivamente gli schermi e le voci della pubblica informazione, dell’immaginifico sociale; parate militari dalle geometrie farneticanti, dalle rinnovate autarchiche enfasi declamatorie, di triste vicina memoria, occupano senza pudore lo spazio collettivo dell’informazione, smentiscono il ricordo delle recenti carneficine; e ovunque in un mondo lacerato e sconnesso da nuove e vecchie ingiustizie sociali, da protagonisti settari autoproclamatisi tribuni di vementi irriducibili proclami di nuove verità a loro stessi riconducibili, a prescindere dalla fatica del dialogo e della possibile cooperazione, si allarga pericolosamente il ricorso ai metodi della contrapposizione violenta, radicalmente.