non solo tradizione….non senza tradizione                                              Torna all'elenco

(struttura e costruzione del repertorio ‘ Marmolada’)

di Paolo Pietrobon

 

Da tempo il nostro mondo corale, quello che dal 1926 guarda alla SAT come alla propria matrice storica e culturale, e assai spesso, e non sempre bene, si attarda nell’imitazione di tale straordinario modello, conosce un calo di tono.

Non che siano mancate negli ultimi decenni proposte e scelte innovative, i cui ideatori rispondono a nomi prestigiosi e sono da noi amatissimi, quasi simboli di stagioni in cui la giovinezza si accompagnò a forti amicizie, alla ricerca di spazi di libertà e di bellezze naturali, all’abbraccio con la montagna, e al limpido semplice canto all’ombra del suo grande mantello: è il  caso di Paolo Bon, Gianni Malatesta,  Flaminio Gervasi, Bepi De Marzi, Mino Bordignon e, più vicino a noi, di Marco Maiero, di Angelo Tieppo, e del caro Lucio.

Un’analisi oggi estesamente condivisa è quella di Dino Bridda, nella prefazione a ‘Voci di cristallo’, anno di grazia 1987, il testamento etico-musicale di Giancarlo Bregani, e la codificazione dell’esigenza del nuovo, la Nuova Coralità, quella iscritta nel Manifesto del Simposio di Cortina, anno 1970, che mise insieme tutto il meglio del canto popolare e di montagna di allora: oltre ai già nominati, Armando Corso, Armando Faes, Giorgio Vacchi, Geminiani, Genova, lo stesso Bregani e ancora Lucio Finco.

Voglio riportare le sue parole su quegli eventi per lui importantissimi, parole sincere e misurate, come sempre quando si trattava di musica e delle sue fonti di riferimento: ‘sono stato molto vicino e amico del compianto Giancarlo, e testimone del nascere del progetto per quel libro, tanto che la moglie Lucilla, dopo la cerimonia funebre a Belluno, volle che andassi a casa sua per farmi vedere che il libro era già in fase di menabò…(e sul simposio)…è stato buono Bregani a citare il mio nome tra gli ‘esperti credibili del convegno’, anche se aveva già dimostrato la sua ammirazione l’anno prima invitandoci alla Rassegna corale di Cortina, selezionatissima e a tema, per sviluppare il capitolo “I nuovi canti”, che poi erano quelli di De Marzi, e per di più alla sua presenza, tanto che ebbi un forte imbarazzo a starci assieme ’( da ‘Marmoléda’, 10/2002).

Vale per Lucio, per le sue convinzioni su musica e coralità, altra affermazione del Bridda: ‘ La coralità è un fatto dinamico, non è MUSEO, anche se il museo può essere FONTE; l’elaborazione storica è tutta nostra, e l’arte può essere ‘ripetizione solo se permeata dall’alito di chi ne è di fatto autore e protagonista, in questo caso il coro’. E chi ha lavorato con lui, e ascoltato i risultati di quel lavoro, ha conosciuto da vicino e condiviso la sua ricerca ansiosa (anche gli ‘affettuosi furti’, da lui così raccontati nei momenti liberi dall’impegno) di ‘cose nuove e belle’: ‘…nelle scorribande vicentine - accompagnatore l’instancabile Sandro Bergantin - alla scoperta delle fonti d’ispirazione  di De Marzi e Geminiani, compresi i rischi sfiorati per improvvisi colpi di sonno ( parola che Lucio mette tra virgolette seguita dal punto esclamativo…).

Così, giorno dopo giorno, presero forma e continuità le modalità necessarie e convincenti dello ‘stile Marmolada’: il rapporto di Lucio con il suo coro, e la riconosciuta originalità del repertorio e del modulo espressivo, armonioso, morbido e autorevole insieme, mai ridondante o gridato, ricco di annotazioni timbriche ma mai inutilmente barocco. Le sue parole: ‘Lo stile lo dà il maestro, con le sue scelte, con le sue improvvisazioni, in filo diretto con i cantori…una continua simbiosi: tu entri nel canto, lo filtri con la tua sensibilità, lo vesti della tua personalità ‘artistica’, lo trasmetti ai tuoi interpreti con tutto il tuo corpo, quasi tu fossi un’emittente elettronica, ma umana, carne ossa e cervello. Allora diventi coro, un tutt’uno inebriante e sconvolgente!. E quelle di Bepi: ‘Il Coro Marmolada ha raggiunto uno stile proprio, la certezza di una vocalità ampia, pur nella caratteristica delicatezza tutta veneziana delle sonorità contenute nello spazio di un’innata eleganza propria del parlare lagunare’(Da ‘Marmoléda’ citato).

Il tutto nell’onda, oggi più pigra, del ‘nuovo’ che, anche nel mondo della coralità d’ispirazione popolare, gli anni ’70 inseguivano: insomma, ‘cantare meglio la tradizione’? o coglierne con nuova attenzione, anche culturale, valenze e bellezze profonde, inesplorate?

Rispondere, come attorno al Simposio si fece, ‘non solo e non in qualsiasi senso’ significò, da quel momento, interrogarsi e indagare su una ‘Nuova Coralità’, avventura e sentiero fascinoso che proposto con forza ed enfasi quasi ‘profetica’ da Paolo Bon, oggi conosce importanti conseguenze, a partire, prima di citare testi e melodie, da una sorta di assioma, evocato da Luca Bonavia nell’ambito del lavoro di ricerca sul nostro tema condotto per l’ ‘Associazione Culturale Cantar Storie’: ‘Ciò che abbiamo a disposizione, a volte senza troppa fortuna, è una sorta di ‘passaporto’, che immaginiamo impolverato ed è a tratti illeggibile, da cui è possibile desumere solamente qualcuno dei loro spostamenti (dei motivi della tradizione musicale orale e delle relative variazioni, cioè), da un luogo all’altro, nel corso dei secoli, fino alle nebbie dell’arcaico. Perché è l’arcaico che si delinea all’orizzonte, quel coacervo di voci e  fantasmi della memoria, incubi ancestrali e sogni senza tempo che appartengono ad ognuno di noi, senza eccezioni, ed assieme a noi all’intera umanità’.

Allora, se ricantare pedissequamente il ‘già cantato’ non dà futuro, e nemmeno grandi soddisfazioni, possono sempre valere la riproposizione di immagini, sensazioni e sentimenti se confermata dalla coerenza vigile della buona innovativa armonia; la considerazione e il rispetto di memorie storiche e percezioni del buon convivere, con  ciò che ‘umano’ e ‘naturale’, da cui sempre può risorgere nuova musica, per Giorgio Vacchi; la dedizione creativa a nuovi contenuti (il ‘Mediterraneus pontus’ di Paolo Bon); la favola incessante e il traguardare lirico definitivo del ‘nostro’ Bepi; la trama storico-rurale del lavoro e della creatività burlesca dei contadini della pedemontana veneta (il ‘Val Canzoi’ di Angelo Tieppo); la nuova favola romantica dell’anima del paesaggio (Marco Màiero); le migrazioni sognanti nel fluire leggero della canzonetta d’autore o pure sociale, accanto all’accarezzamento coraggioso delle divinazioni dei classici, da ‘Firenze sogna’ alla possente, eccezionale ‘Bella ciao’(nell’annotazione di Bregani), all’ ‘Adagio della Suite n. 3 in RE di Bach (Gianni Malatesta).

‘Storie, insomma e comunque pervase dalla saggezza temprata nei secoli della dura vita delle montagne ( e di altri antropologici contesti), da un’ingenuità di sentimenti infantile e commovente, da un ritegno pieno di pudori ma carico di generosità’, nelle parole di Roberto Leydi!...

E sarebbero venute, fresca pioggia di una nuova primavera, ‘I méta, i méta’, ‘Elmegyek, ‘La quince Brigada’, di Paolo Bon; ‘Maria’, ‘L’acqua ze morta’, ‘La bomba imbriaga’, ‘Nikolajevka’, di De Marzi; e ancora il ‘Kumbaya’, il ‘Dove vai matre Maria’, la ‘Donna Lombarda’, o la ‘Canzone sopra il tema della Girometa, di Flaminio Gervasi.

Da non saper dove mettere la testa per un sincero attrezzato musicofilo, per un uomo formatosi nelle forti emozioni collettive, nell’abbandono vigile alle grandi armonie, per uno come LUI. C’è un pensiero di Gianni Malatesta che si ben si adatta alla ricerca musicale di Lucio: ‘Se c’è un musicista (o un musicofilo, aggiungo io) che ha in mente di fare una determinata cosa, conta solo l’ispirazione necessaria; in quel momento c’è lui solo, e basta. Butta giù sulla carta (Lucio immagina, se ne innamora e la proietta sul ‘suo’ Marmolada…) quello che sente dentro, e si saprà dopo se è bello o no. Se è brutto sparisce, se è bello resta….il coro, prima di tutto, deve servire per fare della musica: più possibilità si danno a un coro, più musica si fa…’.

Dovendosi aggiungere che colore, calore, sogno e perfezione di ‘mamma SAT’ non sono mai stati sottovalutati da Lucio. Ma come vive tutto ciò nel repertorio storico del ‘Marmolada’?

 

Provo a rispondere alla domanda, cominciando, senza pretesa di scientificità, da alcuni elementi statistici, e prendendo a materia d’indagine le ‘prime esecuzioni’ del ‘Marmolada’, quindi i segnali dell’attenzione rivolta, a quel punto, a un certo canto, e al relativo musicista e/o compositore, e la ricorrenza di tale scelta.

 

·        A. PEDROTTI: ante ’70 10% ; post ’70 2.2% ; tot. 12.3% 22 canti

·        L.PIGARELLI :       “           20%        “             1.1%      “   21.2%      38     “

·        B. DE MARZI :       “        14.5%        “             6.0%      “   20.7%      37     “

·        PAOLO BON  :       “          3.9%        “             6.5%      “     6.7%      12     “

·        MALATESTA:       “         11.7%       “              22%       “   21.2%      38     “

·        Altro post ’70  : Tutte le funtanelle (BREGANI), My Lord wath a morning (BREGANI), E mi me ne so ‘ndao (FINCO), Sa brunedda (RUJU-SBORDONE), Preghiera degli zingari (ARU), Tibie paiom (BORNIANSKY), Canto dei battipali (VACCHI), Dormi pitzinnu (SODDU-GARAU), Maria lavava (CORSO-CAURIOL), Vamos construir (BARLOW e altri), Cje belle ‘u prim’ammore (GERVASI), M’hanno fatto burattino (BUGGIANI), Gran Dio deme na barca (POMARICI-DE BERNART)…

 

C’è la scuola storica, quindi, il riflesso dell’Italia post-risorgimentale e post-bellica ( soprattutto la Prima Guerra, ma non da sola), riscoperta e risentimento importante dei luoghi del dolore totale consegnati alla storia, fiammate di tragedia e spazi di armonia contadina e pre-industriale insieme, i grandi affreschi della SAT.

E poi avanti con la stagione del nuovo sviluppo economico e del riaffacciarsi dell’arte, e quindi della musica, oltre il recinto del mero economico sopravvivere e il limite delle culture nazionali (se non nazionalistiche) e regionali ‘tout court’, e l’aggancio al nuovo e altrimenti armonico.

Si imponeva gradatamente il recupero folclorico come pretesto di inesplorate sonorità e intensità, per l’orecchio e per il cuore, e l’avvicinamento con rispetto e profonda empatia, ma rinnovata laica curiosità musicale, libera da stilemi e canoni ammanettati dalla sola tradizione italocentrica e in una sua parte sostanzialmente melodrammatica, alle risonanze ecologico-ambientali, agli spasmi e agli umani patèmi della guerra riproposti come annuncio drammatico della demolizione dell’individuo-soldato o presa di distanza politica e ‘moderna’ dalla violenza come sistema distruttivo fatto istituzione, alla lirica neoromantica della sofferenza d’amore o della simbiosi emotiva con le ricorrenti vitalità dei paesaggi e della stagioni, alla rivendicazione della lettura primaria, non-canonica, non curiale, dei sacri testi, alla riedizione fastosa e insieme aderente di motivi e voci di danza e fabulazione, spesso e deliziosamente infantile.

In tutto questo il Coro Marmolada e il suo primo maestro hanno tracciato taluni percorsi del proprio cantare, per non smarrire le fonti recenti del canto popolare, e per modellare sistematicamente nel senso dell’equilibrio tra passato, presente e ‘futuribile’ il proprio repertorio, il progetto culturale da proporre agli appassionati e alla città: accanto a quanto già detto, Làila, El bosco, La contrà de l’acqua ciara, di De Marzi; Sui monti Scarpazi, di A. Pedrotti; Il Golico, la Bomba imbriaga, e Joska la rossa, di Bepi ancora; e La laine des moutons, nell’armonizzazione del ‘Marmolada’, e Addio montagne, di Berruti, o Les plaisirs sont doux, di Malatesta, la stupenda Elmegyek, di Paolo Bon; e infine, poiché finir si deve, Suna l’ura, di Pomarici-Seguso, l’Ave Maria sarda, del Coro Martinella.

Chapeau!