Senti cara Ninéta                                                                                    Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

Il canto, collegato alla partenza degli alpini veronesi richiamati alla guerra del 1915/18, fa parte di un gruppo di canzoni che furono cantate sempre, quando fu più acuto fu il problema della partenza per la guerra, anche se non appartiene al patrimonio dei canti alpini ma, inizialmente, dei volontari di Curtatone e Montanara,

nel 1848 della prima guerra d’indipendenza che vide i volontari toscani e napoletani impegnare gli austriaci così consentendo ai piemontesi di concentrarsi e vincere a Goito.

E del resto la coscrizione obbligatoria si fa sentire pesantemente in Italia fin al tempo della dominazione di Napoleone I, che per le sue numerose guerre aveva un gran bisogno di soldati. A quell’epoca infatti risalgono molti canti militari, tutti improntati a un’indiscussa obbedienza, al dolore del distacco da mogli e figli, con un modulo riferibile al notissimo incipit ‘Addio mia bella addio / che l’armata se ne va / e se non partissi anch’io / sarebbe una viltà….io non ti lascio sola / ma ti lascio un figlio ancor / sarà quel che ti consola / il figlio dell’amor’.

Raffigurazione classica: il soldato stringe fra le braccia e bacia la sua amata, con l’angoscia di chi avverte la vicinanza di un destino indecifrabile e ostile, dal quale potrebbero essere annullati gli elementi di un’umana felicità, quella di vedere la nascita del suo bimbo. Elemento questo dalla forte simbologia, per il riferimento agli assi cardinali dell’antica cultura popolare del paese: la donna moglie e madre, la donna che attende con rassegnata fiducia nel ‘buon dio’, e accanto a lei l’uomo, consapevole e orgoglioso della paternità, della continuità dell’essenziale ruolo sociale rivestito e, nella oscura circostanza, delegato alla moglie, inevitabilmente in nome del ‘dovere patriottico’, infranto il quale gliene verrebbe vergogna e danno:

 

Senti cara Nineta cosa m'è capità:

m'è capità 'na carta che sono richiamà.

 

Se sono richiamato bella non sta a zigar:

tra quattro o cinque mesi mi vegno congedà.

 

Senti cara Ninetta il treno a cifolar,

sali sulla tradotta alpin ti tocca andar

 

Interessante poi, ma consueta, la proliferazione di tali motivi e simbologie, variati i contesti storici, in numerosissimi testi delle principali raccolte, a dimostrazione appunto della loro natura comunque popolare, anche qualora essi fossero stati prodotto ‘ d’autore ’, ad esempio:

 

“… Perché piangi ragazzo mio / perché piangito mai tu? / Piangi forse perché tu vai in guerra? / che ghe andarò mi par ti… ////… Camillo è già partito / che l’era tanto belo / la piuma sul cappello / faceva innamorar…/…Ohimè che passa il treno! / Treno di artiglieria / lancjeri e fanteria / e ma il mio amore non c’è!...////… Varda che bela machina / con trentasei vagoni / drento ghe xé el me Toni / vestio da militar…/…Solo te racomando / quell’unico bambino / tientelo a te vicino / no starlo abandonar…////…Nell’ultimo vagone / c’è l’amor mio / col fazzoletto bianco / mi dà l’addio / col fazzoletto bianco / mi salutava / e con la bocca i baci / la mi mandava…”, non potendosi tralasciare i ‘classici’, come a dire ‘Monte Canino’ ( “ Non ti ricordi quel mese d’aprile / un lungo treno varcava i confini / che trasportavano migliaia degli alpini: / su, su, correte, è l’ora di partir!...”), o ‘La tradotta’ ( “ La tradotta che parte da Torino / a Milano non arriva più / ma la va diretta al Piave / cimitero della gioventù!...”), o infine ‘E col cifolo del vapore’ ( “E col cifolo del vapore / la partenza de lo mio amore / è la partenza de lo mio amore / chi sa quando ritornerà!...”).

 

Importante pure annotare i sintagmi, le icone ricorrenti in tali raffigurazioni.

Anche in ‘Senti cara Nineta’ troveremo il soldatino fiducioso per il moschetto e lo zaino cui quasi s’affida; la lunga fila dei vagoni con ragazzi-soldato affacciati a salutare con malcelata o incosciente allegria; gli anziani del paese, discosti alquanto, confusi tra l’orgoglio per quei ‘figli’ valorosi e, nel cuore, i presagi di una sventura ai loro occhi e nella loro memoria assai vicina; la morosa accanto alla vaporiera che sbuffa impaziente sui binari. Il tutto inciso nel treno che cìfola, sibila, zufola, fischia: tutti i paradigmi del richiamo emotivo al gruppo degli amici, alla borgata così pacifica e affidabile, all’intima parlata dialettale.

Ma anche, nella letteratura popolare meno retorica, quella che della guerra racconta i profili sinceri senza veline forzosamente patriottiche, i treni colmi di feriti, azzoppati, ammalati definitivamente nel cuore e nella mente, come, in un differente

contesto ma per una cruda analogia, nella musica e nelle parole di Francesco De Gregori nella sua ‘Generale’:

 

“... Generale dietro la stazione

lo vedi il treno che portava al sole

non fa più fermate neanche per pisciare

si va dritti a casa senza più pensare

che la guerra è bella anche se fa male

che torneremo ancora a cantare …”

 

“ Una poesia cantata, dove si legge la drammaticità della guerra, sempre e drammaticamente attuale. Sembra di vederla la Tradotta col suo carico umano di feriti. Sembra di sentirla quella puzza di piedi e di sudore, mentre la locomotiva traina e scivola sbuffando sui binari e si allontana da quel tramonto, ancora troppo vicino, che s'illumina a tratti di spasimi di lampi colorati degli scoppi delle granate”(1).

 

In ‘Senti cara Ninéta’ l’impasto contiene tutto ciò, lo lascia intendere al di là della propria semplicità: netta, seppure sommessa, la rassegnazione al destino di chi può solo accettare, dell’amata, alla quale, inespresso per deferenza o dolore, rimarrà un tempo incommensurabile di incertezza, ma pure la certezza di fatiche cui corrispondere da sola, l’affanno del garantire comunque alla ‘famiglia’ la necessaria sopravvivenza, morale e materiale. Perché a lei innanzitutto, perché donna, ciò compete, indiscutibilmente, allora come, meno conflittualmente, ai nostri giorni.

 

 

Note:

 

(1) Le tradotte trasportavano al fronte i soldati, e dalle prime linee (dove si sparava) anche i feriti, militari in congedo o in licenza.

 Sulle tradotte i fanti cantavano le canzoni di sempre e da fuori si capiva che era una tradotta di ritorno dal fronte. Quelle che partivano erano invece silenziose, cupe, portavano i soldati, a migliaia, che ‘andavano a morire’.

La Prima Guerra Mondiale pure si concluse a bordo di un treno. L'armistizio, tra l’Impero Tedesco e le forze alleate, venne firmato, l’11 Novembre 1918, a bordo della carrozza 2419 dell'Orient Express, in sosta presso Compiègne.

Ancora un treno, nel 1921, attraversa il Friuli, il Veneto e il Trentino per giungere a Roma il 4 novembre, il giorno della vittoria: vi viaggia la bara del Milite Ignoto, scelta tra i caduti senza nome dei vari fronti di guerra, che verrà tumulata nell’Altare della Patria….( Tratto da “ forum.moldweb.eu > vivere in Italia > Storie di vita vissuta ”).