L’ENCICLOPEDIA  TRECCANI  PER  LA  MUSICA                                       Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

Ci sono notizie che, magari intraviste a una prima lettura di un giornale, solleticano ma, al momento, non trattengono l’attenzione. Così mi è successo giorni or sono (25 Maggio 2018) allo scorrere una pagina di “ Avvenire ”: ‘ Il libro. La Treccani della musica ’. Ma subito dopo l’attenzione si impone. Riporto letteralmente: “ … volume ‘ Musica ’, appena edito dalla Treccani (Pagine 760. Euro 400.00) all’interno della collana ‘ Il contributo italiano alla storia del pensiero ’ … il primo volume dedicato alla musica in 95 anni di storia della prestigiosa casa editrice … un percorso sapienziale, lungo 2500 anni, all’interno della musica italiana, dall’eredità greco-latina alla contemporaneità, sconfinando fino alla canzone popolare e quindi compreso il Festival di Sanremo…”

Certo che sì, visto che quando si parla o si legge dell’Enciclopedia Treccani ( ‘di Scienze, Lettere ed Arti ’) ci si riferisce a un monumento della cultura italiana nel mondo, non meno di così: “ Un istituto che ha per oggetto la compilazione, l'aggiornamento, la pubblicazione e la diffusione della cultura umanistica e scientifica, per esigenze educative, di ricerca e di servizio sociale, riconosciuto quale ente di diritto privato di interesse nazionale e istituzione culturale (l. 123/2 aprile 1980), indipendente dallo Stato e da altri enti, anche per la parte finanziaria, la nomina del cui Presidente spetta al Presidente della Repubblica.

In precedenza, l'Italia non aveva avuto una grande enciclopedia universale. Nel 1924, l'imprenditore tessile Giovanni Treccani (1877-1961) «venne avvicinato dagli amici Ferdinando Martini e Bonaldo Stringher che, conoscendo il suo mecenatismo, gli proposero la pubblicazione di una grande enciclopedia italiana. L'atto costitutivo dell'istituto, che doveva provvedere all'immensa opera di organizzazione e di pubblicazione, venne posto in essere a Roma il 18 febbraio 1925. Oltre al fondatore, che ne era anche il presidente, ne facevano parte: il filosofo Giovanni Gentile in qualità di direttore scientifico … il maresciallo Luigi Cadorna … Luigi Einaudi … l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, il presidente del Senato Tommaso Tittoni….!!

Il filosofo Giovanni Gentile, suo primo direttore scientifico, fu l'animatore della prima edizione dell'Enciclopedia Italiana, e a lui si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'opera. Invitò infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 studiosi, di diverso orientamento, poiché nell'opera si doveva coinvolgere tutta la migliore cultura nazionale, compresi molti studiosi ebrei o notoriamente antifascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento ”…. Insomma, una cosa ‘pesante’, tornando a pensare all’attenzione dedicata finalmente alla musica.

Così ho letto il resto, negli accattivanti interventi di Giacomo Baroffio e Alberto Brunelli, ritrovando elementi ricorrenti – anche criticamente – della nostra esperienza del canto corale nelle sedi ecclesiali. Ed ho riscoperto, prima di tutto, che esistono due innodìe, cioè raccolte più o meno sistematiche di inni, l’una sacra, liturgica, profetica, l’altra laica, civile, patriottica.

 

Cosè un ‘ inno ’? L’affascinante intenso termine deriva dal greco μνος (hýmnos), "canto in onore degli dei" (1).  A noi piace sapere che da un ‘ Inno a S. Giovanni ’, canto gregoriano del decimo secolo, o meglio dalle iniziali dei suoi emistichi ( metà versi ), Guido d'Arezzo trasse le note musicali della sua riforma: UT queant laxis - REsonare fibris - MIra gestorum - FAmuli tuorum - SOLve polluti - LAbii reatum - Sancte Ioannes ( "affinché i [tuoi] servi possano esaltare a polmoni dilatati le cose meravigliose delle tue gesta, cancella la colpa dell'impuro labbro, o San Giovanni"). E che la riforma di Guido contemplò le prime sei note, tra le quali in Italia la UT fu poi sostituita dal DO nel 17° sec. da G.B. Doni per la maggiore sonorità di questa sillaba (ma taluno dice dalla prima sillaba del cognome Doni); mentre il SI fu aggiunto alle sei altre note nei sec. 16°-17°, dalle iniziali dell'ultimo emistichio.

 

Esso fu originariamente una forma poetica che, associata al canto e alla danza, invocava e pregava la divinità celebrando le virtù e le imprese degli dei, ed era accompagnato dalla cetra, con un ritornello che permetteva anche agli ascoltatori di prendervi  parte: l'inno è dunque l'espressione lirica del sentimento religioso, ma esso serve anche alle esigenze della liturgia, ed esprime pertanto le credenze religiose e le aspirazioni morali del gruppo sociale per cui è stato redatto. Tanto che tutte le grandi religioni dell'antichità hanno avuto inni, alcuni di altissimo valore letterario e di grande importanza come documento per la storia delle religioni. Basterà citare, come esempio, per l'Egitto gli inni al Nilo e ad Ammon e quelli di Amènofi IV al disco solare Aton; per la civiltà babilonese-assira, gli inni a Samas, Marduk, Ishtar e Tammuz; per l'India, gli inni del gvèda; per la Persia, le Gāthā ;  per gli Ebrei, i Salmi, con i quali il nostro dire torna alla nostra musica e coralità, o almeno a una sua espressione, rappresentata simbolicamente dalle armonizzazioni realizzate da Bepi De Marzi dei Salmi tradotti da David Maria Turoldo.

 

L’innodia ( o innografia ) nelle chiese cristiane

Fu il vescovo Ambrogio, nella Milano del IV secolo, a predisporre una prima raccolta di inni liturgici con il fine di far cantare il popolo. Nella Chiesa non si cantava per la bella voce, ma “ in forza di una missione ratificata da una formula liturgica ”; il cantore quindi è investito di una funzione profetica, perché fa risuonare la Parola di Dio e contribuisce in modo speciale ad attualizzarla. E addirittura papa Gregorio, nel Concilio di Roma del 595, prende le distanze dai “ diaconi che ostentano una vanagloria irresponsabile ”invece che limitarsi a cantare il Vangelo. Al canto partecipano via via varie categorie, in tre livelli: l’assemblea tutta, uno o due gruppi di cantori, uno o più solisti per le sezioni più complesse, e si associano le voci bianche dei pueri ( bambini ) che spesso sostituiscono le voci femminili, anche se non è che il canto liturgico, soprattutto il gregoriano, sia riservato alle sole voci maschili. A parte la presenza delle donne nelle celebrazioni liturgiche e paraliturgiche ( si pensi alle veglie funebri ), “ il canto delle donne è d’obbligo nelle case religiose femminili ”, ma si sa pure che, tra altre riconosciute personalità femminili, tale Rosvita di Gandersheim ( 935 – 974 cc. ) riscrive Plauto in chiave pia e devozionale.

Venendo vicino a noi, è il caro Giovanni XXIII, nel Concilio Vaticano II, a codificare la necessaria funzione liturgica del canto sacro, anche se “ inaspettati furono gli sviluppi postconciliari, dovuti anche alla temperie rivoluzionaria di quegli anni ”, nella quale vanno comprese le tante – non sempre musicalmente pregevoli, anzi, per le annotazioni frequenti del grande Bepi De Marzi, oggi specialmente impegnato a ridisegnare in quel senso parte del proprio repertorio – musichette di accompagnamento liturgico ( chitarre e arrangiamenti diversi compresi ) che però interpretavano modalità di avvicinamento al ‘sacro’ meglio corrispondenti alla nuova esigenza di protagonismo e di minore ingessatura formale presente nei giovani ( e favorita dal clero più avveduto )(2).

Interessante infine, a completare la nostra breve ricognizione, altra annotazione conciliare: “ nella Chiesa si abbia in grande onore l’organo a canne, come strumento tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere mirabile splendore alle cerimonie e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle realtà supreme ” ( anche se mi piacerebbe indagare sulle componenti psicofisiche - del suono e della ricezione umana – e sociobiologiche ( dell’appartenenza sociale e della connessione fisiologica umana alla sonorità complessa del fantastico strumento ).

 

 

E nella realtà laica, civile…

 

In ambito letterario, il termine ‘ inno ’ – già usato da L. Alamanni (16° sec.), che così chiamò  le sue odi pindariche – si diffuse tra 18° e 19° sec. per designare componimenti poetici di carattere solenne,  anche di argomento profano (civile, patriottico, filosofico): per esempio  gli Inni alle Grazie di U. Foscolo, o l’Inno ai Patriarchi di G. Leopardi. Mentre i poeti romantici usarono per i propri inni lo schema metrico della canzonetta, mediato dall’esempio di G. Parini: così A. Manzoni negli Inni sacri.

Nell’uso moderno, la parola ha assunto il significato di canto patriottico, politico, di guerra ecc., da eseguire coralmente, ispirato all’esaltazione di valori ideali, di sentimenti comuni a un popolo o a una qualsiasi comunità. E alcuni canti patriottici (a cominciare dal 18° sec.) furono prescelti come rappresentativi di questo o quel paese, assumendo carattere ‘ufficiale’ e diventando inni nazionali, destinati al canto corale o anche solo all’esecuzione musicale, in circostanze significative per le configurazioni delle identità nazionali, fino alla loro esecuzione – non sempre partecipatissima invero, almeno in Italia e fino all’importante promozione che ne fece il Presidente Ciampi – negli appuntamenti sportivi internazionali.

(1)  Anche piacevole ricordo dei banchi di scuola ricordarne uno tratto dall’ Iliade di Omero. Al momento di avventurarsi a notte fonda nel campo troiano a mietere vittime tra soldati resi poco attenti dalla batosta inferta il giorno prima all’esercito degli Achei, Ulisse, tra i guerrieri greci invitto, al fianco di Diomede per comando di Re Agamennone, così si rivolge a Minerva, dea fautrice dei destini di gloria degli Achei: “  Odimi, o figlia dell’Egioco Giove, / che l’opre mie del tuo nume proteggi, / né t’è veruno de’ miei passi occulto: / or tu benigna più che prima, o Dea, / dell’amor tuo m’affida, e ne concedi / glorioso ritorno e un forte fatto,/ tale, che renda dolorosi i Teucri ”.

(2)  E qui si ritorna all’attualità del nostro canto corale, e alle interpretazioni troppo spesso ‘formali’ e ‘ingessate’ con cui le Curie Patriarcali e, di seguito, le Parrocchie tendono a restringere seriamente le possibilità di riportare nelle chiese, luoghi collettivi per eccellenza, il canto corale, per quanto all’interno di repertori rispettosi della specifica spiritualità dell’ambiente.