Stelutis alpinis - Le strofe apocrife                                                           Torna all'elenco

di Sergio Piovesan

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Sinonimi del termine “apocrifo” sono  falso, fasullo e falsamente attribuito. “Strano modo di iniziare un articolo”, penserà qualcuno ma, andando avanti, vedrete che l’inizio è attinente.

Alcuni giorni fa sulla casella di posta del coro arrivò una mail, scritta da una persona di Pontebba, inerente “Stelutis alpinis”. Aveva letto il mio articolo su questo canto (pubblicato su “Marmoléda” di settembre 2005) al quale era giunto tramite “Wikipedia”, la famosa “enciclopedia” della rete, dove viene evidenziata la presenza di due strofe apocrife, e chiedeva di cancellare dal sito del Coro Marmolada le due strofe in questione.

A parte il fatto che, quanto riportato nel sito, non è altro che la copia digitale di questo notiziario, stampato in numerose copie e, quindi, di impossibile cancellazione, ribadisco che nell’articolo in questione il testo di “Stelutis alpinis” è riportato, in un riquadro apposito, nella versione scritta da Arturo Zardini e, solo nel proseguo dell’articolo, ho segnalato le altre due strofe, che sapevo essere non originali ma non ne conoscevo l’autore, precisando che si trattava appunto di strofe apocrife. Sulla discussione in “Wikipedia” il presidente Rolando Basso ha precisato quanto sopra. Tutto quanto successo mi ha stuzzicato e, allora, sono andato alla ricerca di notizie in merito, ed ho trovato come si è arrivati a questa aggiunta. 

Apro una parentesi precisando che altri canti hanno subito questo tipo di alterazione: solo per citarne uno, ricordo che anche “Signore delle cime”, di Bepi De Marzi, ebbe una terza strofa apocrifa scritta da un sacerdote, ancora negli anni ’60, cioè a poco tempo della pubblicazione del canto stesso.

Lo Zardini scrisse il canto a Firenze nel 1917, canto che, alla fine della guerra, divenne subito famoso, oltre che in Friuli e fra i friulani, anche fra gli alpini.

Rocco Tedino e Mauro Unfer, autori della pubblicazione “Il tempio ossario di Timau”, scrivono:    « … Poi qualcuno, non si saprà mai chi, ribattezza “Stelutis” il “canto dell’Alpino morto” e sancisce, senza volerlo, un atto di adozione ufficiale della canzone da parte degli Alpini che ne faranno la gemma più preziosa del loro repertorio. Nel 1921, ad esempio, l’A.N.A. di Milano ringrazia Zardini e la Società Filologica Friulana per aver ottenuto il permesso di inserire “Stelutis Alpinis” in un canzoniere Alpino che l’Associazione ha in animo di pubblicare quanto prima, assicurando “…che la riproduzione sarà eseguita in tutta cura ed esattezza e che senza fallo alcune copie del Canzoniere verranno inviate a suo tempo a codesta Società…”».

Nello stesso anno il colonnello Vincenzo Paladini di Udine, ricevuto l’incarico di sistemare il cimitero di guerra di Timau, ebbe l’idea di far incidere “Stelutis Alpinis” su una lapide in marmo, da collocare in posizione preminente fra le sepolture, perché rappresenti un degno completamento degli onori da tributare a quei valorosi Caduti per l’Italia. Però, secondo lui, a questo testo mancava qualcosa e cioè un chiaro riferimento alla Patria ed allora chiese allo Zardini di completare la sua composizione con altre strofe che esprimessero, chiaramente, questo sentimento. Ed allora il 29 luglio 1921 il Paladini scrisse allo Zardini questa lettera: “Illustre Signore, essendomi caduta sott’occhio la sua bellissima poesia “Stelutis alpinis”, avrei pensato di farla incidere su di una lapide per adornare uno dei nostri cimiteri di guerra in Carnia. Ma a ciò manca nelle mirabili strofe, così piene di sentimento, un accenno alla Patria, che le farebbe più appropriate alle tombe di soldati morti per essa. E’ ardimento soverchio il mio, senza che abbia nemmeno l’onore di conoscerLa di persona, di pregarLa a voler mutare quanto basti perché corrispondano allo scopo? Mi sia, ad ogni modo, di scusa l’ammirazione che ho per il suo impegno, e insieme il culto verso i nostri gloriosi Caduti, e gradisca i sensi della mia riconoscenza profonda e della mia alta osservanza”.

A questa richiesta lo Zardini rifiutò di dare seguito anche perché considerava la sua canzone ben riuscita così com’èra e non intendeva assolutamente modificarne il testo. Intervenne anche un suo compaesano coetaneo, Francesco Bierti, che già aveva collaborato scrivendo alcuni testi poi musicati dallo Zardini stesso, ed alla fine sembra, e sottolineo “sembra”,  che abbia ceduto lasciando che Bierti scrivesse le due quartine richieste dal Col.Paladini con lo specifico riferimento all’Italia. 

Il 4 gennaio 1923 Arturo Zardini morì e, ad un anno dalla scomparsa, il fratello fece stampare un biglietto commemorativo che riportava il testo di “Stelutis alpinis” e, inspiegabilmente, anche con le due strofe del Bierti. Alle sdegnate rimostranze della vedova, signora Elisa, e degli amici, ritirò il biglietto e lo fece ristampare corretto.

Ma non era ancora finita! Nel 1948 alcuni personaggi espressero l’opinione di rimaneggiare il canto, anche nella parte musicale, perché “ … difetta di contrappunto ed armonia.”. Anche in questa occasione la vedova si fece sentire con una lettera ripresa dalla stampa. Un ultimo tentativo, o “castroneria”, come la definì la battagliera signora Elisa, vi fu nel 1952 quando, a seguito della commemorazione di Francesco Bierti  presso la Società Filologica Friulana, la stampa locale attribuì al defunto commemorato l’intera paternità di “Stelutis alpinis”.

Veniamo ai giorni nostri: il nipote di Zardini continua a “combattere”, giustamente, contro queste strofe apocrife perché c’è ancora chi continua ad ignorare che le ultime strofe non sono di Zardini. Inoltre, e questo l’ho verificato ultimamente, esistono siti internet, di cori, ma anche di musica e di associazioni d’arma, che continuano nell’errore al quale, spesso aggiungono anche la caratteristica di definire il canto come “popolare”, senza indicarne l’autore. Poi ci sono quelli che, fatta una nuova armonizzazione, trascurano il nome dell’autore evidenziando, ovviamente, quello dell’armonizzatore. Il tutto è, senz’altro, questione di ignoranza e/o di superficialità.

Un’ultima testimonianza: il sottoscritto conosce “Stelutis alpinis” fin da bambino, perché appreso dalla madre ed ho sempre saputo che la canzone terminava con “… jò e la stele sin cun te”.

Poi, dopo la naja fra gli alpini, approdai all’A.N.A., e lì venni a conoscenza, perché usavano cantarle, di queste due strofe aggiunte.


La riproduzione del testo tratto da “Il tempio ossario” di Rocco Tadino e Mauro Unfer mi è stata autorizzata per via telefonica da uno degli autori (M.Unfer).

Analoga autorizzazione vale per la fotografia che riporta il testo autografo dello Zardini

Nella foto qui sopra il testo autografo di “Stelutis alinis” di Arturo Zardini.