MARMOLEDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia - Giugno 2013 . Anno 15 n.2 (56)                  

SU GIULIO BEDESCHI FEDERALE REPUBBLICHINO

di Paolo Pietrobon

Sergio Piovesan ha dato notizia nel suo blog di una scoperta per lui, e per me pure, quanto meno sconcertante: Giulio Bedeschi, il poeta epico della tragedia vissuta in Russia da tante migliaia di alpini scaraventati in una guerra demenziale dal fascismo delirante del duce e dell’amico Hitler, lo scrittore che intere generazioni di giovani e di appassionati alle vicende del Corpo degli Alpini hanno ammirato, nonostante la rotta vergognosa del fascismo e della sua guerra aderì alla Repubblica Sociale di Salò, all’ultima feroce zampata sferrata sulle carni di un popolo smarrito e provato, la mano assassina del tiranno tedesco nascosta nel guanto servile di un Mussolini ormai patetico e disperato, e perciò più di prima disponibile a qualsiasi avventura, e delitto.

La cosa era nota da qualche tempo, eppure non sufficientemente diffusa sui normali canali d’informazione. Del resto anche allora, tra il 1945 e i primi anni ’60, come tra poco vedremo, tutto ciò fu seppellito nel silenzio, comportando addirittura il rifiuto di numerose case editrici alla pubblicazione dello straordinario Centomila gavette di ghiaccio, che tale rimane, a mio parere, per il punto di vista dell’autonomia dell’opera d’arte dagli impicci ideologici o politici di bassa lega, se tenuti a debita e sincera distanza. Nota [1]

 

CONSIDERAZIONI UTILI PER UNA OBIETTIVA E PIU’ AMPIA DISCUSSIONE.

Sorpresa e ‘delusione’ non si possono negare. Nel che si può riconoscere la comprensibile ma impropria convinzione ( o speranza morale? ) che quegli alpini, i loro umanissimi e valorosi ufficiali e chi ne scrisse, per il solo fatto di essere stati precipitati in una guerra assurda e arrogante quanto improvvisata dal fascismo italiano fossero, ‘ dovessero anzi essere ‘, contro quel fascismo.

Ma tutti loro, come in una rappresentazione simbolica, quasi ‘statistica’, dell’Italia che li aveva mandati a combattere, erano gli italiani di quella stagione tremenda: figli di contadini e giovani lavoratori, virgulti delle scuole militari  e di un’esercitazione a ‘bere il brodo di coltura, culturale e sociale’, del fascismo fin dall’infanzia e da un indottrinamento cui tutte le istituzioni ‘educative’ avevano orgogliosamente ( e obbligatoriamente ) concorso, dalla scuola alla propaganda ministeriale, alle istituzioni assistenziali ( le colonie estive e simili ‘allevamenti’ ), al ricatto, famiglia per famiglia, per una tessera annonaria in più, per uno straccio di lavoro, all’organizzazione maniacale del sabato fascista di balilla e giovani. Nota [2]

 

Ho voluto soffermarmi su questi elementi della cultura autoritaria di quegli anni, anche per ridurre l’entità e la sorpresa dell’inizio, un po’ meno, a dire il vero, la delusione, pensando alla qualità intellettuale e all’esperienza reale del Bedeschi, con conseguenze temo inevitabili per una valutazione sincera dell’ opera letteraria in se stessa, ma più ancora del valore simbolico e culturale di essa in riferimento all’oggetto concreto della narrazione: un evento storico e umano legato indissolubilmente alle motivazioni che l’avevano prodotto ( e alle conseguenze terribili da esso indotte su centinaia di migliaia di poveri soldati mandati al macello) e tale da pretendere che a quelle sofferenze e devastazioni, fisiche e morali, venisse data una considerazione responsabile, ‘costruttiva’. Che invece Bedeschi trattiene, e a questo punto non certo per pudore. Nel che consiste la delusione, notevole.

Il libro non è in discussione a mio parere, non lo sono la tecnica e la sincerità narrativa del suo autore, né la statura umana dell’uomo, e non lo può essere soprattutto il piacere di rileggere e cantare le storie nate dall’affresco imponente da lui realizzato, tra tutte la Nikolajewka che il Coro Marmolada propone con emozione intatta sulla musica e sul testo – quella sola parola – di Bepi De Marzi.

Così come vanno tenuti distinti dall’orientamento politico e ideologico dello scrittore i prodotti del suo ingegno, all’unica condizione che essi a quell’orientamento non siano subordinati, non siano cioè indirizzati, magari con gli eleganti fraseggi dello stile e dell’ornato – si pensi a tanta prosa retorica del D’Annunzio interventista a oltranza in nome di un nazionalismo esasperato – alla subliminale captazione del libero pensiero del lettore, delle sue suggestioni profonde.

Rimane però – ad essere anche qui sinceri e non strumentali – la scoperta tardiva del fascismo militante di Bedeschi, dallo scrittore in vita tenuta segreta a differenza di altri intellettuali e uomini di spettacolo. Rimane, e pesa, il sapore amarognolo di quel suo silenzio, tale da indurre non tanto il dubbio sul suo lavoro, quanto la sensazione sgradevole per un silenzio che lascia trasparire  una costruzione etica e culturale nell’autore ambigua e reticente, tale da modificare nella sensibilità del lettore il valore complessivo dell’opera, e della forte antropologia in essa disegnata, a proposito, ad esempio, del ‘valore alpino’, dell‘ ‘obbedienza alpina’, della ‘rassegnazione di quei forti italiani’ a un ‘destino’ assegnato loro.

Non essendovi cenno all’improbabile anonimato della derivazione di quel destino, della follia autoritaria che ne era scaturigine e imperiosa pretesa, riesce purtroppo conseguente e spiacevole una delle seguenti conclusioni, o di ambedue: o l’autore non collegava i due termini del dilemma per insufficienza della sua analisi culturale del fenomeno ‘fascismo’, in sostanza rimuovendo quel collegamento e tenendo separate partecipazione storica all’evento e risentimento etico-morale per esso; o, peggio, quasi compiacimento ideologico e pietistico insieme, quella scorticazione violenta e smisurata dei corpi e delle anime dei poveri soldati egli sopportava e giustificava nei fatti quale esigenza e prezzo da sostenere e pagare ‘fronte alta e petto in fuori’ per le ragioni ‘ supreme ‘ della follia fascista e, per delega ricevuta, del nazismo. Nota [3]

 

Cosa non si volle vedere di quella disfatta? Cosa di quei fantasmi materializzati dall’inferno di dolore e strazio senza misura? Come Bedeschi nello scriverne rispondeva, a se stesso almeno, a quelle domande, per quanto tardive, crudelmente tardive?

C’è comunque l’altro libro, almeno, da rileggere, per avvicinare meglio una risposta più aggiornata ai quesiti posti, quel ‘ Il peso dello zaino ’ nel quale vive il necessario complemento del primo, nel quale vive il dramma dell’ 8 Settembre, con le scelte e le decisioni da prendere, ancora una volta, nel marasma che sommuove l’intera Italia.

Non nascondendo il fatto che, anche alla rapida consultazione fatta per il presente articolo, ho provato l’emozione straordinaria di un’epica moderna dai tratti commoventi e umanissimi, e la convinzione di un capolavoro della letteratura storica e memorialistica che non teme, in sè, né il dubbio metodologico del ricercatore, né il logorìo del tempo.

 

 


[1] IL CONTESTO STORICO-GIORNALISTICO.

“  Perché “Centomila gavette di ghiaccio”, uno dei maggiori bestseller del XX secolo, la testimonianza capolavoro scritta da Giulio Bedeschi sulla ritirata di Russia, venne pubblicato soltanto nel 1963 da Mursia dopo aver ricevuto ben sedici rifiuti editoriali? Insensibilità e scarsa professionalità degli editori che non annusarono la qualità di un libro che avrebbe venduto ben quattro milioni di copie? Oppure c’era un altro motivo dietro quei rifiuti?... “               

                       ( Dino Messina da ‘La Nostra Storia’ del 24 aprile 2012 )

 

Probabilmente un motivo c’era ed era politico. Aveva a che fare con il passato fascista e repubblichino di Bedeschi, che aveva aderito alla Repubblica di Salò, tanto da essere nominato nel marzo 1944 Reggente della Federazione dei fasci repubblicani di Forlì. Un’adesione convinta quella di Bedeschi, che ancora il 26 aprile 1945 si trovava a Thiene, nel Vicentino, dove aveva comandato operazioni di rastrellamento dei partigiani.

Del periodo “nero” non c’è traccia nei libri autobiografici del medico-scrittore, e ancora alla sua morte, nel 1990, la moglie, interpretando le volontà del marito, disse che i tempi non erano maturi per scoprire un velo su quel periodo. Non solo Gunther Grass, dunque, non solo lo storico Roberto Vivarelli, ma anche Giulio Bedeschi hanno preferito tenere segreta quella loro esperienza […] nel caso di Bedeschi, fu Benito Gramola qualche tempo fa a dedicargli il volume “La 25 Brigata nera Capanni e il suo comandante Giulio Bedeschi” (Cierre edizioni).

Le notizie contenute nel volume di Gramola trovano conferma nei documenti pubblicati da Ludovico Galli in “Relazioni e appunti della Repubblica sociale italiana. Brescia 1943.1945, tra cui figurano, come racconta Roberto Beretta su “Agorà” di “Avvenire”, foto in cui Bedeschi passa in rassegna le milizie e due lettere a Mussolini del marzo 1945, in una delle quali Bedeschi chiede ‘l’ambitissimo privilegio di poter portare sul petto la ‘ M ’ d’onore del Duce’ “.

                         ( Inserito su www.storiainrete.com il 25 aprile 2012 ).

E ancora. «La Commissione provinciale di Forlì per l’applicazione di sanzioni a carico di fascisti politicamente pericolosi invita il Sig. Bedeschi Giulio di Edoardo, quale fascista politicamente pericoloso, a comparire dinanzi alla suddetta Commissione alla seduta del giorno 24 aprile 1946 per essere interrogato nel procedimento a suo carico». Ma Giulio Bedeschi «federale repubblichino di Forlì, fuggito al Nord, latitante» non si presenterà e sarà privato dei «diritti elettorali attivi passivi per anni dieci»: la sospensione più alta mai decretata da quella Commissione provinciale.

Giulio Bedeschi: sì, l’autore celebrato di Centomila gavette di ghiaccio, Il peso dello zaino, La mia erba è sul Don, Nikolajewka: c’ero anch’io, e tantissimi altri volumi di testimonianze dell’Italia in guerra, che dopo l’8 settembre 1943 era stato – come ormai noto – non solo membro del Partito Fascista Repubblicano, ma anche Federale di Forlì e comandante della Brigata Nera «Capanni», […]  una delle più numerose d’Italia, forte di circa 800 uomini“.   ( Roberto Beretta – 9 Aprile 2013, in ‘Avvenire’ del 5 Maggio 2013 )

E LE VOCI DALLA ‘ RETE ‘

“ Il caso di Bedeschi è interessante e tutt’altro che isolato. Scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale” di oggi, 25 aprile 2012,: “Di quanti combatterono sotto le bandiere di Salò – molti diventeranno poi intellettuali e uomini di spettacolo famosi come Marcello Mastroianni, Giorgio Albertazzi, Marco Ferreri, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Roberto Vivarelli, Hugo Pratt, Giovanni Comisso, Dino Buzzati, Mario Sironi, Alberto Burri, Ernesto Calindri, Carlo D’Apporto, Enrico Maria Salerno… – furono pochi coloro che rivendicarono il proprio passato. Tanti dopo il 25 aprile e la Liberazione, preferirono cancellarlo. Dalla propria vita e dall’altrui ricordo”…. (fabio)  25 aprile 2012.

“ Dopo il 25 aprile, liberata l’Italia dai nazifascisti, è probabile che Bedeschi si sia nascosto nella zona di Thiene, nel  vicentino, dove operava la sua Brigata. Di certo successivamente si trasferì a Ragusa, in Sicilia, dove rimase (defilato) fino al 1949. Qui iniziò a scrivere Centomila gavette di ghiaccio… “.  ( Luigi Mascheroni – in ‘ Il Giornale. Cultura ‘ del 25 Aprile 2012 )

 

[2] Tanto per ricordare: “… l'indottrinamento aveva inizio a scuola: perché fin dalla prima elementare i bambini dovevano studiare la “ rivoluzione fascista” e la bibliografia del duce. Entrando in classe salutavano “romanamente” l'insegnante e cantavano l'inno fascista ‘Giovinezza’. Alla fine della settimana, gli studenti si univano agli adulti in adunate che inneggiavano al regime, era il ‘sabato fascista’. La fascistizzazione era stata profonda. In divisa, con la bandoliera sul petto e il moschetto di legno , i ragazzi dei fasci di combattimento venivano quotidianamente allenati, attraverso la ginnastica, lo sport e un addestramento di tipo militare…”   (Valentinapa, studenti.it)…

 

“…L'educazione paramilitare costituiva una parte fondamentale della pedagogia fascista [...] a titolo esemplificativo riportiamo un passo da un libro di lettura del 1936:
“Sono gli occhi del Duce che vi scrutano. Che cosa sia quello sguardo, nessuno sa dire. È un’aquila cha apre le ali, e sale nello spazio. È una fiamma che cerca il vostro cuore per accenderlo d’un fuoco vermiglio. Chi resisterà a quell’occhio ardente, armato di frecce? Rassicuratevi, per voi le frecce si mutano in raggi di gioia […]
Un fanciullo che, pur non rifiutandosi d’obbedire, chiede: ”perché?” è come una baionetta di latta […] “Obbedite perché dovete obbedire” […] una fede ha creato l’Impero, questa: “Mussolini ha sempre ragione …."
( Giulia Antonelli e vari (I.S.I.T. N. Pacassi di Gorizia), Treno della Memoria 2009 )

 

[3] La cosa si presta ovviamente a ben altri approfondimenti, se si pensa che addirittura uno scrittore come Carlo Bo, nella presentazione a Centomila gavette di ghiaccio, se ne esce con queste valutazioni: “ Lo scrittore si limita a seguire questa lunga strada verso il dolore e la morte, senza aggiungere mai un suo commento, un giudizio a posteriori che oltre tutto sarebbe stato fin troppo facile: il suo compito è stato quello di accodarsi al battaglione”….. ma poco oltre: “ Quegli uomini erano le ombre del male, le vittime di una catastrofe morale e spirituale che andava ricercata altrove. Del resto, un teatro di quelle proporzioni non avrebbe retto se non ci fosse stato dietro un autore, un servitore della violenza. Così il silenzio di morte di quelle pianure non era che la risposta impotente a chi si era arrogato il diritto di parlare per tutti ”…..