Ha ancora senso, oggi, cantare "Oh Angiolina,
bell'Angiolina"?
di Enrico Pagnin
L'altra sera, nella nostra sede del Marmolada, ha avuto luogo un
“incontro-conferenza-dibattito”con Paolo Bon (nell'ambito dei cori di
ispirazione popolare senz'altro un "mostro sacro").
Ha esposto la sua
tesi, secondo cui la musica che va dal mondo antico fino al momento in cui la
classe borghese diviene dominante, è prodotta da musicisti salariati
provenienti dalle classi subalterne, da cui hanno ereditato la tradizione orale
e da cui travasano gli archetipi orali nella musica scritta. E questi diventano
gli elementi propulsori della loro ricerca espressiva.
Per questo non ha
senso parlare, fino all’avvento della Rivoluzione Francese, di musica popolare
o folkloristica contrapposta alla musica “dotta”.
Come esempio di musicista appartenente a questo periodo citava Bach.
Solo nei periodi successivi, cambia lo status sociale e giuridico del
musicista. Complice l'ideale romantico del "genio", il musicista è un
individuo di estrazione borghese, "imprenditore-venditore" del suo
talento musicale. (Se gli va male, finisce a fare il bohemien...).
Il risultato è lo scollamento della cultura scritta dalla cultura
orale. Il musicista ora non conosce più la tradizione orale e “crea dal
nulla” la sua musica.
Paolo Bon esponeva il suo pensiero con linguaggio estremamente preciso,
ricco di termini tecnici presi da
varie discipline, con un'attenzione
quasi maniacale per i particolari (ad esempio la pronuncia esatta dei nomi
inglesi, tedeschi e anche di ceppo slavo): ascoltarlo era una deliziosa fatica.
Seguiva la sua proposta: in questo tempo in cui abbiamo contatti ogni
giorno con persone di etnie diverse, occorre andar oltre il progetto di
integrazione di queste, per approdare ad un'attività di interazione nel campo
culturale, perciò anche in quello musicale: "do ut des", per
arricchirci entrambi.
Poi sono iniziate le domande del pubblico (tutta gente con esperienze
musicali: coristi e qualche insegnante di musica), improntate soprattutto sul
"che fare?",quando uno dei nostri, il "Tenente", ha posto a
Paolo Bon una domanda, a metà strada tra la battuta e la bonaria provocazione:
Ha ancora senso, oggi, cantare "Oh Angiolina, bell'Angiolina, innamorato io
son di te", quando indagini di settore dicono che le ragazzine hanno la
prima esperienza sessuale a tredici anni?
L'oratore, consapevole che un'analisi della nostra società, dei suoi
costumi e dei i suoi valori non poteva essere svolta in quella sede e in quel
momento, se l'è cavata con eleganza, dicendo che, in fondo, la bellezza del
canto dovuta alla sua fresca semplicità, testimoniava che valeva la pena.
Mentre il dibattito proseguiva, mi chiedevo se con quella domanda il mio
compagno di coro denunciava semplicemente la caduta di norme morali, vissute
assai più rigidamente nel passato, oppure si riferiva al totale scollamento
delle ultime generazioni dalle generazioni precedenti.
Da sempre i padri hanno trasmesso ai figli una filosofia di vita, fatta
non solo di valori e norme comportamentali, ma anche di esperienze, racconti,
proverbi, modi di dire e, perché no, anche di canzoni.
Certamente lo scontro generazionale c’è sempre stato: mio padre mi
raccontava delle ribellioni giovanili del suo tempo nei confronti dei padri. Però
alla fine, con la maturazione, c’era una continuità di comportamenti
condivisi tra padri e figli. E anche i nipoti non vedevano il nonno come un
residuato di altri tempi, ma soltanto una persona meno informata e pratica
nell’uso di nuovi strumenti.
Anche quelli con qualche anno più di me,quelli cioè che negli anni ’50 erano giovanotti, non erano molto diversi dai loro padri, pur essendo impazziti per qualche tempo per la musica e i balli americani (ricordo ancora certi tipi col ciuffo alla Elvis Presley scatenarsi in vorticosi rock and roll).
La frattura è avvenuta con la mia generazione (io sono del ’49, ma
qualche anno in più o in meno non fa differenza), protagonista, chi più chi
meno, del mitico ’68. Allora anche i più tranquilli tra noi hanno provato la
sensazione che i nostri genitori erano superati e non avevano molto da
insegnarci, la Scuola era superata, la Chiesa era superata, la morale sessuale
era superata, il modo di lavorare era superato, la Politica era superata…
Sappiamo com’è
andata a finire: tranne qualche “cattivo maestro” e i suoi patetici seguaci,
molti dei quali finiti nel terrorismo o nella droga, la maggior parte è
ritornata nell’alveo della “normalità” (molto citato il “finirete tutti
notai” di Eugène Ionesco).
Però dei cambiamenti profondi e irreversibili sono avvenuti nella
società, in particolare l’avvio verso l’estinzione di quelle civiltà
(contadina, montana, urbana) fino ad allora vive, ma ora sostituite da quella
che Pasolini chiamava la omologante civiltà dei consumi.
Chi, nato e cresciuto in quelle civiltà, tentava di esprimerne e
comunicarne le norme di vita, veniva definito dai più giovani (figli compresi)
“matusa”, vale a dire: completamente fuori dal proprio tempo e non in grado
di capire che altre erano le esigenze e le aspettative dei più giovani.
La mia generazione è riuscita in qualche modo a non perdere la continuità con quella
precedente, pur sottoponendola a critica, ma non è riuscita a continuare
l’opera coi propri figli, anche perché l’impressionante evoluzione
tecnologica (computer, telefoni cellulari, impianti Hi Fi ecc.) ha cambiato nei
giovani, che si impossessano di ogni novità con incredibile facilità , modi di
pensare, di comunicare, di informarsi, di studiare, di fruire di prodotti
musicali.
Ha ancora senso cantare oggi “O Angiolina” oppure “Son vegnù da
Montebel” o ancora “Era sera”?
Ha senso solo per chi, tanti ma tanti anni fa, ha provato altri tipi di
timidezza, turbamenti, speranze e sogni ad occhi aperti. Per tutti gli altri,
credo proprio di no.
Pensando all’invito di Paolo Bon ad interagire con gli stranieri
immigrati nel nostro territorio, per un proficuo scambio culturale, mi assale
una domanda: ma cosa darà loro la nostra società? Le idee e il linguaggio
stupidamente innaturali della pubblicità e delle trasmissioni televisive? E poi
un’insaziabile sete di consumismo e relativa illusione di felicità?
E se questi nuovi compagni di esistenza cercheranno di trasmetterci la
loro cultura d’origine, con la sua ricchezza e le sue peculiarità, troveranno
degli interlocutori in grado di riceverla?