Stelutis alpinis
Se tu vens cassù ta' cretis
à che lôr mi àn
soterât,
al è un splaz plen di
stelutis;
dal miò sanc l’è stât bagnât.
Par
segnâl, une crosute
je scolpide lì tal
cret,
fra chês stelis nas
l'arbute,
sot di
lôr, jo duâr cujet.
Cjôl
sù, cjôl une stelute:
jê 'a ricuarde il nestri ben.
Tu j darâs 'ne bussadute
e po' plàtile tal sen.
Quant che a cjase tu sês sole
e di cûr tu préis par me,
il miò spirt atôr ti
svole:
jo e la stele sin cun te.
Il testo riportato è
quello corretto ed originale dell’autore ed anche la grafia friulana è quella
esatta.
Vi racconto un canto:
di Sergio Piovesan
Da pochi giorni mi trovavo presso la caserma “Chiarle” della Scuola Militare Alpina di Aosta per la seconda parte del 27° Corso AUC. Era una domenica mattina del luglio 1961 e le due compagnie di allievi si trovavano schierate nel cortile della caserma dove era celebrata la Santa Messa; all’elevazione, dopo l’usuale squillo di tromba, un gracidio, classico dei dischi a 78 giri, proveniente dall’altoparlante anticipò un improvviso “Se tu vens cassù ta’ cretis … ”, il primo verso di un canto che io, fin da bambino, avevo appreso da mia madre.
Era “Stelutis
alpinis” il canto che, tradizionalmente, viene eseguito durante le Messe delle
truppe alpine e che mi accompagnò per il resto della “naja”. Subito dopo
quella Messa ci fu chi lanciò l’idea di formare un coro, soprattutto per
l’accompagnamento della liturgia. Naturalmente anch’io vi partecipai e, dopo
15 giorni il coro del 27° Corso AUC della Scuola Militare Alpina sostituì il
disco ormai consunto.
Da allora
“Stelutis alpinis” ha continuato ad accompagnarmi anche, e soprattutto, nei
miei ultimi quarant’anni come corista del “Marmolada”.
“Stelutis alpinis”
fu scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) nel periodo della Prima
Guerra Mondiale, quando l’autore, un maestro di Pontebba, paese che allora si
trovava sul confine italo-austriaco (l’abitato dall’altra parte del fiume
che segnava la linea di demarcazione si chiamava Pontafel), era profugo a
Firenze.
Forse proprio in
Piazza della Signoria, leggendo sul giornale le notizie delle stragi che
avvenivano al fronte, lo Zardini, commosso e rattristato da quelle vicende,
trasse l’ispirazione del testo e della musica.
È quindi un canto
d’autore ma che, da molti è ritenuto di origine popolare, caratteristica
questa dei canti che, nel testo e nella musica, raggiungono livelli di alta
poesia e che, per questo motivo, diventano patrimonio di tutto il popolo.
Da subito fu fatto
proprio dagli Alpini sia friulani sia di altre regioni ed ancora oggi, all’età
di quasi novant’anni, rimane il canto simbolo delle truppe alpine, ma anche di
tutto il popolo friulano.
Con questa
composizione la poesia e la forza dell’autore si sono manifestate nella loro
pienezza raggiungendo l’apice, in un commovente sincretismo e tutte le umane
sofferenze si sono compendiate con toccante espressività. Non sono necessarie
molte parole: ci basta pensare al brivido che ci percorre nel cantare e
nell’ascoltare «..Se tu vens cassù ta' cretis...», brivido che si trasforma
in emozione violenta, da serrarci la gola.
È un compendio di
sofferenze, di dedizioni, di intimità, di affetti, di certezze. Non più canto,
non villotta, ma preghiera profonda e, nello stesso tempo, semplice ed umana,
come semplice ed umano era ed è lo spirito di Zardini.
Per i friulani “Stelutis alpinis” è sì
il canto dell’Alpino morto, ma è anche considerato quasi un inno, un inno al
Friuli, un inno per quella terra che ha vissuto altre sofferenze: un’altra
guerra, invasioni straniere, lotte fratricide e dolorose emigrazioni.
Esaminando il testo non si può far a meno di
notare il largo uso dei diminutivi, o meglio dei vezzeggiativi, caratteristica
abituale nel linguaggio scritto e parlato dei friulani; “stelutis”, “crosute”,
“arbute” e “bussadute” non vanno tradotti con i relativi diminutivi in
italiano anche perché, oltre a ridicolizzare il testo, non hanno proprio quel
significato. È una forma che si può definire affettuosa nella descrizione di
oggetti ed azioni e, forse, è meglio tradurli con una perifrasi.
“Stelùte” (al plurale “stelùtis”)
viene indicato nel Vocabolario
Friulano (Pirona) come diminutivo, spesso come espressione affettiva, di
“stele” (stella); lo stesso lemma manda a vedere “stèle alpine” che fra
i sinonimi prevede anche “stele” soltanto; inoltre è citato come esempio il
verso dello Zardini. La parola “crosute” è il diminutivo, sempre in forma
affettiva, di “crôs”, croce, mentre “arbute” lo è di “arbe”, cioè
erba, che però ha una forma più usata in “jarbe” col relativo diminutivo in “jarbute.
Infine, per concludere con i diminutivi, o
come meglio indicato, con i vezzeggiativi o espressioni affettive, “bussadùte”
si collega a “bussàde” (sostantivo femminile), bacio, che può anche essere
tradotto con il sostantivo maschile “bùs”, in realtà poco usato.
Un altro termine interessante da esaminare è
“cretis”; è il plurale di “crète” che vuol dire rupe, ma anche roccia,
macigno, pendio roccioso, cresta o cima nuda di montagna. Se “crète” è un
sostantivo femminile troviamo anche “crèt”, sostantivo maschile, con lo
stesso significato. Sinonimo di “crète” è anche “cròde” che si
avvicina al significato di croda cioè cima rocciosa appuntita tipica delle
Dolomiti.
Un termine che nel verso prende un
significato esteso è “duàr”. Letteralmente significa “dormo” (in
questo caso si tratta di sonno eterno) e la forma infinita è “duarmî”, ma
anche “durmî”.
Altri potrebbero essere i termini da
esaminare ma, per non annoiare il lettore, penso che quelli sopra citati siano
sufficienti ed i più interessanti soprattutto per una maggiore comprensione del
testo poetico, che invito a leggere con attenzione sia in friulano e sia nelle
due traduzioni.
Purtroppo, come accade per i canti che
diventano famosi, c’è sempre qualcuno che vuole aggiungere qualcosa,
pensando, con una discreta dose di superbia, di migliorare l’opera; nel nostro
caso c’è stato chi ha pensato che il bellissimo testo di Zardini avesse
bisogno di strofe in più ed ecco quindi un’aggiunta apocrifa che riporto per
sola documentazione.
Ma 'ne dì quant che la vuere / a' sara
un lontan ricùard / tal to cûr, dulà ch'al jere / stele e amôr, dut sara
muart.
Restarà par me che stele / che 'l miò
sanc a là nudrit / par che lusi simpri biele / su l'Italie a l'infinit.
(Ma un giorno quando la guerra sarà un ricordo lontano, nel tuo cuore,
dove c’erano la stella alpina e l’amore, tutto sarà morto. Per me resterà
quella stella, che il mio sangue ha nutrito, perché luccichi sempre bella
sull’Italia all’infinito.)
Se tu vieni
quassù fra le rocce,
là dove mi hanno sotterrato,
c’è uno spiazzo pieno di stelle alpine;
dal mio sangue è stato bagnato
.
Come segno, una piccola croce
è scolpita lì sulla roccia,
fra quelle stelle nasce
l'erba,
sotto loro io dormo tranquillo.
Cogli, cogli una stella alpina:
essa ricordo il nostro amore.
Tu dalle un bacio
e poi posala sul seno.
Quando a casa tu sarai sola,
e di cuore tu preghi per me,
il mio spirito ti aleggia intorno:
io e la stella siamo con te.
Traduzione libera
La traduzione è una libera interpretazione del poeta friulano Chino Ermacora così come la scrisse nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928
Se tu verrai quassù fra le rocce,
dove fui sotterrato,
troverai uno spiazzo di stelle alpine
bagnate del mio sangue.
Una piccola croce è scolpita nel masso;
in mezzo alle stelle ora cresce l'erba;
sotto l'erba io dormo tranquillo.
Cogli, cogli una stella alpina:
essa ti ricorderà il nostro amore.
E baciala, e nascondila poi nel seno.
E quando sarai sola in casa,
e pregherai di cuore per
me,
il mio spirito ti aleggerà intorno:
io e la stella saremo con te.
parte seconda: gli apocrifi