FATTA L'ITALIA ... INIZIA L'EMIGRAZIONE
Canti e storie del fenomeno emigrazione
di Sergio Piovesan
Il muoversi di
genti attraverso diversi paesi è un fenomeno che esiste da sempre, da quando
l'uomo, ancora nella preistoria, si muoveva per trovare territori migliori,
prima per cacciare e poi per fermarsi e fare l'agricoltore.
A volte
potevano essere conseguenza delle guerre, come è il caso, secondo la leggenda,
dei Veneti che, provenienti dalla Paflagonia, al
seguito delle navi di Antenore che fuggiva da Troia,
giunsero nell'attuale Veneto sovrapponendosi all'etnia esistente, gli Euganei.
Molto più
probabilmente il movimento dei veneti avvenne attraverso la penisola balcanica;
questi occuparono la pianura, vicino alle coste, ai laghi ed ai fiumi senza
inoltrarsi fra le montagne, che, invece, e- rano zone
di tribù celtiche sempre in lotta con i veneti.
Ma anche
quelle che noi chiamiamo invasioni barbariche
furono, in effetti, delle forme di migrazione: non si muovevano solo eserciti
ma popoli interi.
Alcuni passavano,
altri si fermavano lasciando testimonianze che ritroviamo ancora oggi: basti
pensare ai toponimi longobardi di molte località della Lombardia e del Friuli
dove, rispettivamente, finiscono in
ate
e in acco: Gallarate, Lambrate, Carate Brianza, Limbiate,
Bollate, Linate,ecc. e Cassacco,
Grimacco, Cussignacco, Moimacco, Pagnacco, Tavagnacco
ecc.
Ci
furono canti, come li consideriamo oggi, relativi a quegli eventi? Non si sa e
non credo, anche perché allora, il canto, come la danza, erano espressioni di
culto; troviamo, invece, leggende e storie varie che poi si sono innestate con
fatti successivi. (vedi Donna lombarda).1
Se
l'emigrazione è sempre esistita, fu però nel periodo immediatamente successivo
all'unità d'Italia che il fenomeno ebbe un incremento notevole.
Quali sono state
le cause?
Molteplici direi,
ma la principale è, senz'altro, la miseria che regnava nelle nostre terre,
soprattutto nelle campagne: le proprietà erano di poche famiglie e chi vi
lavorava era sfruttato al massimo e se non serviva veniva messo da parte.
A cavallo tra
'800 e '900 nella campagna veneta, in
questo caso nella campagna proprio alle porte della città di Venezia, regnavano
fame e malaria. Era tutta palude la zona a ridosso delle lagune veneziane, zona
dove imperversava la malaria e dove i contadini, più che altro disperati,
vivevano sperando, invano, in un lavoro per poter far mangiare i figli che
crescevano fra malattie, superstizioni, violenze ed alcoolismo.2
Secondo
i rapporti sanitari lungo il Terraglio,
"…
su 769 capifamiglia, 727 sono catalogati come "villici".
Il 65% della
popolazione adulta non sa leggere e scrivere, su 6.362 abitanti ci sono 541
pellagrosi.
L'ospedale di Mogliano accoglie malati da tutto il Veneto; alla fine
dell'Ottocento si registrano nella regione oltre 10 mila morti per
pellagra".
Era la malattia
delle tre "d": dermatiti, diarrea, demenza. La malattia della fame,
dovuta all'eccessivo consumo di polenta:
"Polenta da formenton / a- qua de fosso / lavora ti paron
/ che mi no posso".3
Il consumo
medio di vino pro-capite, che nel 2001 ha superato di poco i 50 litri, era un
secolo fa, nel decennio 1901-1910, di 126 litri.
In
quel periodo l'emigrazione italiana si diresse principalmente verso il sud
America, Brasile ed Argentina.
Nel 1871 una legge, detta del Ventre Libero, sancì l'inizio della fine
della schiavitù in Brasile.
Da quel momento i figli di donne schiave sarebbero stati liberi; nel 1888
la schiavitù fu abolita. La manodopera degli emigranti Italiani sostituì in
buona parte quella prestata fin allora dalle persone usate come schiavi: in
quanto bianco e cattolico l'immigrato italiano era trattato diversamente dagli
schiavi di colore, ma la qualità della vita effettiva era di poco superiore, e
poi le condizioni di lavoro difficili, la mentalità schiavista di molti
proprietari terrieri portarono il governo italiano a proibire l'emigrazione in
Brasile con il Decreto Prinetti del 1902.
I
canti
di emigrazione sono, in origine, canti di
lavoro e di amore. Nascono nella prima metà dell’Ottocento legati alle
migrazioni periodiche di boscaioli, carbonai, minatori e girovaghi in genere.
Tutti mi dicon Maremma è tra i più antichi e si riferisce
appunto agli spostamenti stagionali interni al paese: chi canta lamenta i
disagi del lavoro faticoso e malpagato e impreca perché ha perduto la donna
amata.
A partire, poi,
dalla grande
emigrazione,
essi mitigano il dolore della partenza, assicurano contro gli incerti del
viaggio e alimentano la speranza di fare l’Ame-
rica.
Su
la place di Tarnep
4
è
una delle tante villotte di saluto alla morosa e di speranza del ritorno e,
come tutte le villotte friulane, solo di pochi versi.
Altri titoli di
canti molto noti sono:
Montagnutis
5,
Biel vignint da l'Ongjarie 6,
L'è ben ver che mi slontani
7,
tutti friulani, ma, d'altra parte, il Friuli fu una delle zone di maggior fornitura
di emigranti.
La nostalgia, ma
anche i sentimenti amorosi, sono molto spesso presenti nei canti degli
emigranti; quelli indicati sopra ne sono un classico esempio, come anche
Ma
se ghe penso
8
famoso canto di nostalgia
genovese.
E da Genova
partivano le navi che dovevano attraversare l'oceano e portare gli italiani
nelle nuove terre a cercare la fortuna, o meglio, una vita di lavoro, ma anche
e soprattutto una vita dignitosa.
Spesso queste
canzoni sono nate su melodie popolari conosciute, adattandovi testi semplici e
immediati, di cui vi possono essere varianti regionali che di poco si
discostano nei contenuti.
Il tema dominante
delle composizioni popolari è quello dell'addio, sempre molto sofferto; seguono
le peripezie del viaggio, spesso affrontate su bastimenti che impiegano
settimane a coprire le lunghe distanze ed ancora il timore dell'impatto con la
nuova realtà che li attende costumi, tradizioni, clima e,
soprattutto, lingue diverse e, infine, la nostalgia,
struggente compagna di viaggio, delle persone e dei luoghi cari lasciati.
Uno dei canti più
famosi che prende il titolo di Emigranti9,
ma anche Trenta
giorni di nave (macchina) a vapore (dal primo verso) è il simbolo
di questa epopea e riassume ed evidenzia quelle che furono le difficoltà, ma
anche l'orgoglio, di centinaia di migliaia di concittadini che abbandonarono
l'Italia per poter condurre, assieme alla famiglia, una vita dignitosa anche se
non esente da sacrifici.
Anche i viaggi
non erano esenti da difficoltà come dimostra questa testimonianza del giornalista e missionario Giovanni Preziosi,
che nel 1907, denunciava: " ...
È sempre uno scandalo il vedere
come sono accumulati gli emigranti a bordo dei vapori in partenza, sdraiati per
terra ed ammonticchiati in coperta per settimane intere, senza una scranna per
potersi sedere; nei giorni di pioggia addossati sotto coverta,
con aria rarefatta pregna di miasmi; nelle ore di pranzo buttati per terra,
senza sedie e senza tavole, con i piatti in mano, costretti a compiere ogni più
elementare servigio, con un personale di servizio che non ha esperienza ed
attitudine sufficiente, raccogliticcio nella parte rilevante, il quale è in
genere privo della più elementare educazione ed urbanità. Anche le tabelle
dei viveri, specie sui bastimenti di bandiera estera, non sono sempre i più
logici, e la pulizia non è troppo rispettata. ...".
Ma non sempre le
navi arrivavano a destinazione: i piroscafi
Ortigia
e Sudamerica provocarono
rispettivamente 249 e 80 morti nel 1880, l’Utopia
(576 morti) nel 1891, il Bourgogne
(549 morti) nel 1898, il Sirio
(292 morti) nel 1906, il Principessa Mafalda
(385 morti) nel 1927.
Ma il naufragio
più famoso,
o meglio quello che più è rimasto nell'immaginario collettivo, è quello del
piroscafo Sirio, tanto che è nato un canto su questo avvenimento: Il
Sirio 10.
I morti effettivi
del naufragio del Sirio furono di più, circa 500, di quelli
ufficiali
in quanto a bordo si trovavano numerosi clandestini imbarcati in porti francesi e spagnoli, dopo
la partenza da Genova; forse per questi soste la nave stava viaggiando al
massimo della velocità proprio per recuperare il ritardo.
Mamma mia dammi
cento lire 11
è
un altro famoso canto popolare che, pur non essendo legato ad un particolare
naufragio, racconta la paura di chi partiva ma anche di chi restava a casa.
A conclusione di
questa carrellata di canti ispirati dall'epopea dell'emigrazione italiana
ritengo doveroso inserire un testo di composizione recente, scritto in
talian,
la lingua parlata, negli stati meridionali del Brasile, dai discendenti degli
emigranti degli ultimi venticinque anni del XIX secolo, che ha per titolo
Recordarse
dei nostri bisnonni
12.
L'autore, Valter Marasca, è uno di quei discendenti.
NOTE
1 Donna
Lombarda è forse la ballata
più diffusa in Italia. Il canto ha origine antica e numerosissime varianti
regionali e narra la storia di una moglie che, spinta dal proprio amante, cerca
di avvelenare il marito.
Il testo, di probabile
origine medioevale, ha mantenuto nel tempo una sorta di attualità aderente allo
stereotipo popolare della donna infedele, ingannatrice e crudele.
Viene fatta risalire
dagli studiosi di musica popolare all'epoca dei Longobardi, quindi questa è una
canzone che dovrebbe avere più di mille anni.
2
Antonella Benvenuti
Mala aria - Il Veneto
della carestia e della valigia
3
Edoardo Pittalis,
nel libro
Dalle Tre Venezie al Nordest.
4
Ce partence
dolorose / su la place di Tarnep
/ o ai lassât la me morose / par no vedêle par un pieç.
5
Montagnutis, ribassaisi
/ fàit un fregul di
splendôr / che ti viodi ancje'
une volte / bambinute dal Signôr.
6
Biel vignint
da l'Ongjarie / la cjatai
sul lavadôr / Bandonai la companie, / mi metei a fâ l'amôr.
7
L'è ben ver
che mi slontani / dal paîs,
ma no dal cûr / stà pur
salde tu, ninine, / che jo
torni se no mûr.
8
(solo il ritornello) Ma se ghe penso alloa
mi veddo o mâ,/ veddo i mæ monti e a ciassa da Nonsiâ, / riveddo o Righi e me s'astrenze o
chêu,/ veddo a lanterna, a
cava, lazzû o mêu... / Riveddo a séia Zena illûminâ, / veddo là a Foxe e sento franze o mâ / e alloa mi penso ancon de ritornâ / a pösâ e osse dov'ò mæ madonnâ.
9
Trenta
giorni di macchina a vapore,
/
nella Merica che semo
arrivati, /
ma nella
Merica che semo arrivati /
no abbiam
trovato né paja né fien. /
E Merica
Merica Merica / cossa sarala sta Merica? /
Merica Merica Merica, / in Merica voglio andar. /
Abbiam dormito sul nudo terreno /
come le bestie che van riposar. /
E la Merica l’è
lunga l’è larga, / circondata da fiumi e montagne; /
e co’
l’aiuto dei nostri Italiani / abbiam formato paesi e
città.
E Merica Merica Merica
… /
E
co’ l’aiuto dei nostri Italiani / abbiam
formato paesi e città.
10
Il quattro d'Agosto, le cinque di sera / Fu quando da Genova il
Sirio partì. / Quando da Genova il Sirio partiva / Per l'America al suo destin. /
Sirio. Sirio, la misera squadra. / Per molta gente la misera fin!
/
Senza timore il Sirio correva /
Legger, leggero sul placido mar. / Sull'alto mare la nave s'infranse /
Incontrando lo scoglio fatal.
/
Sirio. Sirio,la misera squadra.
... / Quattro barchette navigan sul mare, / In
soccorso dei nostri fratei. / Padre e madre bacian suoi figli. / E, poi, sparivano fra l'onde del mar.
/ Sirio. Sirio, la misera ... / Ed a bordo un Vescovo c'era / Dando a loro la benedizion. / Oh sorte misera pel Sirio infelice / Il mar
profondo fu tomba crudel! / Sirio. Sirio,la misera ...
11
Mamma
mia dammi cento lire / che in America voglio andar! / Cento lire io te li dò, / ma in America no, no, no. (2v.)
I
suoi fratelli alla finestra, / mamma mia lassela
andar. / Vai, vai pure o figlia ingrata / che qualcosa succederà. (2v.)
Quando
furono in mezzo al mare / il bastimento si sprofondò. / Pescatore che peschi i
pesci/ la mia figlia vai tu a pescar. (2v.)
Il
mio sangue è rosso e fino, / i pesci del mare lo beveran.
/ La mia carne è bianca e pura / la balena la mangierà.
(2v.)
Il consiglio della mia mamma / l'era tutta
verità. / Mentre quello dei miei fratelli / l'è stà
quello che m'ha ingannà. (2v.)
12
Fa de più de cento ani / che i Taliani qua i zé rivai; / zé rivati de bastimento, / i gà sofresto pezo
de animai; / i gà trovato puro mato,
/ sensa querte i dormiva in
tera; /i gà lotà tanto tanto / quasi come èser ne la guera.
Bisogna
recordarse de i nostri bisnoni
/ che grasie a lori encoi
noi semo qua!
De manara
i taieva le piante / per piantare formento
e milio; / quelo zera per el suo sustento / pena rivati qua n te sto paise. / I g
à piantà tanti vignai / I gà
inpienesto le bote de vin:
/ l era Italiani che ghe fea
veder / la so forsa a tuto
l Brasil /
Bisogna recordarse de i nostri bisnoni / che grasie a lori encoi noi semo qua!
La domenica i ndeva a mesa, / fioi e fiole e i sui genitori; /
i gaveva tanta fede a Dio / che zé
pupà anca de tuti noi;
se tuta la gente del mondo / fose stata come i nostri biznoni
/ deso l mondo el saria ben n antro, / sensa guera e meno povertà! /
Bisogna recordarse de i nostri bisnoni / che grasie a lori encoi noi semo qua!
Quando l era giorni de festa
/ se riuniva diverse fameie; / i cantava, i giugheva a le boce, / a giugar carte i pasea noti intiere; / ben contenti i giugheva
a la mora / e i bevevo anca tanto vin; / quando che ghe
bateva la fame / i magnea
polenta e scodeghin / Vardé
adeso, me cari frateli, /
che cità e che bele
colonie; / tante strade e che grande industrie / che i ga
fato per noi per più sorte; / Noi qua adeso gavemo de tuto; / Ascolté cosa che mi ve digo: / recordeve de i nostri Italiani / che adeso
i è là n te l
recordarse
de i nostri bisnoni / che grasie
a lori encoi noi semo qua!