Gran Dio deme ’na barca                                                                                                                        Torna all'elenco

 

Premessa musicale

di Michele Peguri

In certi giorni d’inverno guardando da Venezia verso nord si coglie un nitido riflesso dei monti innevati sull’acqua lagunare. E’ un semplice specchiarsi d’elementi, ma le tinte che l’acqua e il cielo assumono, nello scorrere della giornata, arricchiscono questo gioco di riflessi d’infinite sfumature e vibrazioni. È una visione che mi ha spesso accompagnato e penso che aiuti a comprendere l’amore singolare che lega l’uomo del mare, di Venezia, alla montagna.

Questi due mondi, evidentemente non così lontani, visto che la natura ci permette di coglierli in un’unica dimensione, sono l’ambiente di questo moderno testamento del capitano, composto nel 1997 da Massimo de Bernart su testo di Ugo Pomarici in memoria dell’amico Massimo Gemin.

È una canta moderna, un azione-narrazione immersa nel simbolico: la grande barca raccoglie le ultime volontà e le memorie scivolando a tempo di barcarola per giungere su l’altra riva. Le reminescenze non sono la guerra o le trincee, ma la natura montana, le passeggiate, i veci scarponi, do moschetoni, un libro da cantar, lo zaino che lo scalatore vuole con sé nell’ultima dimora. E poi i canti, divenuti ora echi del profondo, appaiono rifrazioni che appena individuate si smaterializzano: Belle rose du printemps, Signore delle Cime, Stelutis Alpinis, Al cjante el gjal e altri ritornelli si riverberano in modo caleidoscopico. Tutto ciò mentre la grande barca si dissolve a poco a poco come inghiottita da un fondale sonoro statico a effetto di bordone.

Musicalmente il brano è una rappresentazione a più piani, fatto abituale nell’arte musicale, ma senz’altro originale nel repertorio del popolare. L’esperienza della politonalità in Bèla Bartok (cultore e profondo conoscitore del folklore magiaro) è senz’altro un riferimento, ma di certo il mondo e la poetica di Gustav Mahler (dove il popolare divenne pure materia d’indagine ma con altri obiettivi) può rappresentare una forma di mediazione con il lavoro compositivo di Massimo de Bernart. Come la raffigurazione tra il reale e il ricordo, simboleggiata in modo unico dall’artista boemo si esprime in una stratificazione polifonica, dove richiami alpini e di ländler appaiono in modo improvviso sovrapponendosi al “presente musicale” (si pensi alla Prima sinfonia), in questo brano i ricordi più incisivi, i canti, risuonano distraendoci dal concreto. Il concetto di tempo perde i contorni oggettivi elevandosi a dimensione intima, quasi onirica.

Prima dell’addio l’uomo della laguna guarda gli amati monti raccomandandosi “...e ricordème mi”: e ci piace pensare che quelle crode innevate si tuffino realmente nell’acqua unendo in un unica infinita distesa i ponti e i monti.

 

 

Racconto

di Bernardino Bernardi

 

 

Il testo di Gran Dio deme 'na Barca è una poesia di Ugo Pomarici, già corista degli anni '60, che ha anche ispirato la linea melodica, poi musicata ed armonizzata da Massimo de Bernart, suo amico di gioventù, allora studente di conservatorio e poi diventato direttore d’orchestra, in memoria di Massimo Gemin, pure lui ex corista del Marmolada.

È una preghiera da parte di colui che, sentendo che è arrivata l'ora, si rivolge a Dio e chiede di poter andare sull'altra riva con una barca per poter navigare, una barca armata con una grande vela rossa, che possa fare da bandiera, e con un’altrettanto grande vela nera, in segno di dolore. Su questa barca, nell'ora della prova desidererebbe salire a prora, vestito di un mantello, in testa un cappello con la "penna", e lo zaino, pronto per salire la montagna, con dentro corda, chiodi, moschettoni, ed infine, per rallegrar lo spirito un libro di canti. Per completare i suoi desideri, desidererebbe ancora un mazzo di fiori sbocciati in primavera ed un sacchetto di terra. Infine, consapevole di aver vissuto una intensa vita terrena piena di ricordi e di soddisfazioni, si permette ancora di chiedere  altre cose per quando sarà salito sulla barca: un forte vento in modo che la barca possa staccarsi facilmente da riva, e, quando giungerà in mezzo al mar che affondi pure, ma piano-piano, fra sighi dei rondoni, e contemporaneamente, ricordandosi di lui, di smorzare canti e suoni. Un ultimo desiderio, rivolgendosi agli amici: Nel cuor tegnì memoria / De mi cressuo tra i ponti / Innamorà dei monti / Sepolto in mezzo al mar.

E' un canto molto bello, piacevole all'ascolto, orecchiabile anche, ma, a parte qualche accordo in dissonanza, tipico della musica Jazz, al primo impatto abbiamo incontrato qualche complicazione: cantiamo senza l'accompagnamento strumentale e, pertanto, mentre stai cantando una soave barcarola, nella parte in cui il testo presenta un forte vento mentre la barca affonda piano-piano, l'armonizzatore, nella sua ispirazione, immagina dei dolci e soavi sogni che si materializzano in canti di montagna, quei canti della gioventù immagazzinati nella sua memoria. C'è stata, come dicevo sopra, qualche complicazione (corale ben s'intende) al primo impatto. Immaginate di essere calmi e tranquilli e di canticchiare qualche motivo, come quando ti stai radendo la barba, e qualcuno vi venga a cantare all'orecchio un'altra canzone; contemporaneamente un altro esegue un'altra canzone e, subito, ne parte un'altra e poi ancora un'altra. Così, mentre il coro canta a quattro voci quella che può sembrare una soave barcarola, alla tua destra un altro corista ti canta Belle rose du printemps, alla tua sinistra, un altro accenna a Que fais tui la bas. Nella stessa battuta musicale, mentre questi due solisti cantano, il coro continua con la sua armonia: mentre la barca fonda. Ma non è finita: nella battuta successiva altri due solisti cantano Dio del cielo Signore delle cime ed altri ancora Mamma mia vienimi incontro, e Se tu vens su ta cretis; ma non è finita! Ed ecco Al cjante el gjal, Quand nous revenons des champs, nous chantons, poi ancora Belle rose du printemps; ed intanto il coro continua con la barcarola: Mentre la barca fonda e più avanti … tra sighi de rondoni ..., ... se smorza canti e soni ... per finire con ... e ricordeme mi.

Questa complicazione corale, sulla partitura, è in dodici battute su cinquantatre; dulcis in fundo, le ultime otto battute sono per coro a sei voci.

 

Durante le prove ho fatto un paragone con il poema sinfonico La Moldava. di Smetana nel quale l'autore esprime, fra l'altro, il gocciolio della neve che si scioglie, poi il gorgoglio del ruscello, la corrente più marcata del torrente, ed ancora l'impetuosità dell'acqua che scorre, il fiume ingrossato, le turbolenze della corrente ma anche la calma del fiume.

L'apprendimento del brano, come si capisce bene da questa mia esposizione, è stato, senz'altro, una fatica corale, soprattutto per me e per chi come me deve tenere una nota sempre uguale per dodici battute con attorno tutto quell'ambaradan! Ma anche per i solisti non è stato semplice anche perché le varie melodie si intersecano.

Sono state necessarie numerose prove, però, ne sono sicuro, pur se difficile anche al primo ascolto, avrà il successo meritato.