Gran Dio deme ’na barca
Premessa musicale
In certi giorni
d’inverno guardando da Venezia verso nord si coglie un nitido riflesso dei
monti innevati sull’acqua lagunare. E’ un semplice specchiarsi d’elementi, ma
le tinte che l’acqua e il cielo assumono, nello scorrere della giornata,
arricchiscono questo gioco di riflessi d’infinite sfumature e vibrazioni. È una
visione che mi ha spesso accompagnato e penso che aiuti a comprendere l’amore
singolare che lega l’uomo del mare, di Venezia, alla montagna.
Questi due mondi,
evidentemente non così lontani, visto che la natura ci permette di coglierli in
un’unica dimensione, sono l’ambiente di questo moderno
testamento
del capitano, composto nel 1997 da Massimo de Bernart su testo di Ugo Pomarici
in memoria dell’amico Massimo Gemin.
È una
canta
moderna, un azione-narrazione immersa nel simbolico: la grande
barca
raccoglie le ultime volontà e le memorie scivolando a tempo di barcarola per
giungere
su l’altra riva. Le reminescenze non sono la
guerra o le trincee, ma la natura montana, le passeggiate,
i
veci scarponi, do
moschetoni,
un
libro da cantar, lo
zaino che
lo scalatore vuole con sé nell’ultima dimora. E poi i canti, divenuti ora echi
del profondo, appaiono rifrazioni che appena individuate si smaterializzano: Belle
rose du printemps, Signore
delle Cime, Stelutis Alpinis,
Al cjante el gjal e altri ritornelli si
riverberano in modo caleidoscopico. Tutto ciò mentre la
grande barca si dissolve a poco a poco come
inghiottita da un fondale sonoro statico a effetto di bordone.
Musicalmente il
brano è una rappresentazione a più piani, fatto abituale nell’arte musicale, ma
senz’altro originale nel repertorio del popolare. L’esperienza della
politonalità in Bèla Bartok (cultore e profondo
conoscitore del folklore magiaro) è senz’altro un riferimento, ma di certo il mondo
e la poetica di Gustav Mahler (dove il popolare divenne pure materia d’indagine
ma con altri obiettivi) può rappresentare una forma di mediazione con il lavoro
compositivo di Massimo de Bernart. Come la
raffigurazione tra il reale e il ricordo, simboleggiata in modo unico
dall’artista boemo si esprime in una stratificazione polifonica, dove
richiami alpini e di ländler
appaiono in modo improvviso sovrapponendosi al “presente musicale” (si pensi
alla Prima
sinfonia),
in questo brano i ricordi più incisivi, i canti, risuonano distraendoci dal
concreto. Il concetto di tempo perde i contorni oggettivi elevandosi a
dimensione intima, quasi onirica.
Prima dell’addio
l’uomo della laguna guarda gli amati monti raccomandandosi
“...e
ricordème mi”: e ci piace pensare che
quelle crode innevate si tuffino realmente nell’acqua unendo in un unica
infinita distesa i
ponti
e i monti.
Racconto
Il
testo di Gran
Dio deme 'na Barca
è una poesia di Ugo Pomarici, già corista degli anni
'60, che ha anche ispirato la linea melodica, poi musicata ed armonizzata da
Massimo de Bernart, suo amico di gioventù, allora
studente di conservatorio e poi diventato direttore d’orchestra, in memoria di
Massimo Gemin, pure lui ex corista del Marmolada.
È una
preghiera
da parte di colui che, sentendo che è arrivata l'ora, si rivolge a Dio e chiede
di poter andare sull'altra riva con
una barca per poter navigare, una barca armata con una grande vela rossa, che
possa fare da bandiera, e con un’altrettanto grande vela nera, in segno di
dolore. Su questa barca, nell'ora della prova
desidererebbe salire a prora, vestito di un mantello, in testa un cappello con
la "penna", e lo zaino, pronto per salire la montagna, con dentro
corda, chiodi, moschettoni, ed infine, per rallegrar lo spirito un libro di
canti. Per completare i suoi desideri, desidererebbe ancora un mazzo di fiori
sbocciati in primavera ed un sacchetto di terra.
Infine, consapevole di aver
vissuto una intensa vita terrena piena di ricordi e di soddisfazioni, si
permette ancora di chiedere altre cose
per quando sarà salito sulla barca: un
forte vento
in modo che la barca possa staccarsi facilmente da riva, e, quando giungerà in
mezzo al mar che affondi pure, ma
piano-piano, fra sighi
dei rondoni,
e contemporaneamente, ricordandosi di lui, di smorzare
canti
e suoni.
Un ultimo desiderio, rivolgendosi agli amici:
Nel cuor tegnì
memoria / De mi cressuo tra i ponti / Innamorà dei monti / Sepolto in mezzo al mar.
E'
un canto molto bello, piacevole all'ascolto, orecchiabile anche, ma, a parte
qualche accordo in dissonanza,
tipico della musica Jazz, al primo impatto abbiamo incontrato qualche
complicazione: cantiamo senza l'accompagnamento strumentale e, pertanto, mentre
stai cantando una soave barcarola,
nella parte in cui il testo presenta un forte vento mentre
la barca affonda piano-piano, l'armonizzatore, nella sua ispirazione, immagina
dei dolci e soavi sogni che si materializzano in canti di montagna, quei canti
della gioventù immagazzinati nella sua memoria. C'è stata, come dicevo sopra,
qualche complicazione (corale ben s'intende) al primo impatto. Immaginate di
essere calmi e tranquilli e di canticchiare qualche motivo, come quando ti stai
radendo la barba, e qualcuno vi venga a cantare all'orecchio un'altra canzone;
contemporaneamente un altro esegue un'altra canzone e, subito, ne parte un'altra
e poi ancora un'altra. Così, mentre il coro canta a quattro voci quella che può
sembrare una soave barcarola,
alla tua destra un altro corista ti canta Belle rose du
printemps, alla tua sinistra, un altro accenna
a Que fais tui la bas.
Nella stessa battuta musicale, mentre questi due solisti cantano, il coro
continua con la sua armonia: mentre la barca fonda.
Ma non è finita: nella battuta successiva altri due solisti cantano Dio
del cielo Signore delle cime ed altri ancora Mamma
mia vienimi incontro, e Se
tu vens cà su ta cretis;
ma non è finita! Ed ecco Al cjante
el gjal,
Quand nous revenons des champs, nous chantons, poi ancora Belle
rose du printemps;
ed intanto il coro continua con la barcarola: Mentre la barca fonda
e più avanti … tra sighi
de rondoni ..., ... se smorza canti e soni ...
per finire con ... e ricordeme
mi.
Questa complicazione corale, sulla partitura, è in dodici battute su cinquantatre; dulcis in fundo, le ultime otto battute sono per coro a sei voci.
Durante
le prove ho fatto un paragone con il poema sinfonico
La
Moldava.
di Smetana nel quale l'autore esprime, fra l'altro,
il gocciolio della neve che si scioglie, poi il gorgoglio del ruscello, la
corrente più marcata del torrente, ed ancora l'impetuosità dell'acqua che
scorre, il fiume ingrossato, le turbolenze della corrente ma anche la calma del
fiume.
L'apprendimento
del brano, come si capisce bene da questa mia esposizione, è stato, senz'altro,
una fatica
corale,
soprattutto per me e per chi come me deve tenere una nota sempre uguale per
dodici battute con attorno tutto quell'ambaradan!
Ma anche per i solisti non è stato semplice anche perché le varie melodie si
intersecano.
Sono
state necessarie numerose prove, però, ne sono sicuro, pur se difficile anche
al primo ascolto, avrà il successo meritato.