Ai preât la biele stele                                                                                Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon

 

Come spesso accade nel leggere canti e poesie friulane, questa, per la musica di Franco Escher e l’armonizzazione di Luigi Pigarelli, propone un andamento e una melodia davvero simili ad un canto e a una preghiera, intimamente connessi, nell’ispirazione e nell’emozione che sanno trasferire. 

Ai preât la biele stele” è una villotta friulana, molto diffusa tra i nostri soldati nel corso della prima guerra mondiale: vi si riconosce la tipica forma poetica  di origine ottocentesca: quattro ottonari alternati piani (primo e terzo) e tronchi (secondo e quarto); un canto che unisce alla semplicità del testo, caratteristica costante dei brani di derivazione popolare, una raffinata armonizzazione melodica.

Tecnicamente ancora, si ritiene che le villotte friulane, per la struttura melodico-ritmica, risentano di un’ influenza della musica strumentale di matrice austro-ungarica e slavo-balcanica, potendosi aggiungere che gli arrangiamenti delle canzoni popolari dell’arco alpino discendono, in generale, da modelli di canto corale di tradizione austro-tedesca, e meno da tipologie derivate dalle scuole musicali italiane, le quali hanno, invece, riservato a queste forme di canto corale un ruolo piuttosto marginale.

 

La guerra, dunque. Essa ha coinvolto e sconvolto anche coloro che si trovavano a casa, che vivevano giorni di speranza e d'apprensione attendendo ogni giorno chi portasse una notizia dal fronte.

In questo canto una ragazza rivolge una preghiera alla stella per lei più bella, e a tutti i santi del paradiso, affinché Dio possa fermare la guerra e il suo amato finalmente possa ritornare al paese.

All’apice della divaricazione, del sentimento e della poesia, la preghiera accorata di un’innamorata ( ma anche la madre è ‘innamorata’ di quel figlio… ) raccoglie l’invocazione di quel ragazzo in guerra, di tutti i ragazzi precipitati nella tempesta del conflitto, e quasi chiama le fredde stelle a scendere dolci sulle paure, sulle solitudini, a ricucire il filo radicale dell’umana condizione, quello per il quale davvero e unicamente non desideriamo conoscere la rassegnazione animale alle leggi naturali del vivere e del morire, ma scegliamo il filo dell’amore, della mutua vicinanza e comprensione: “ Ai preât la biele stele / duc’ i sants del paradis / che il Signor fermi la uère / che il mio ben torni al pais! / Ma tu stele biele stele / va’ daûr di che’ montagne / là ch’a l’è ‘l mio curisìn (cuore) ”.


Certo nel linguaggio e nella fiducia nei sentimenti di appartenenza, che rimangono comunque strutturati nella cultura religiosa, patriottica e familiare del mondo che ci ha preceduti, non ancora globalizzato in ciò e quindi “razionale”, rassicurante, restiamo nell’ambito della tradizione lirico-romantica nazionale, di ascendenza genericamente risorgimentale.

Non c’è ancora la rottura di schemi comunicativi, e quindi poetici, indotta sulle sensibilità più attente dal mutare, con le relazioni planetarie in ogni campo, di quegli stessi riferimenti, e quindi, ove essi siano oscurati e non appaia altra trama conciliante per l’emozione ed il sentimento umano dell’essere e dell’esistere, dal manifestarsi e crescere di un nuovo sentire cosmico ma solitario, individuale e separato, proteso negli eventi, sovente infelice.

Più recentemente, l’esperienza di guerra non si limita più a separare dalla sua Sicilia il giovane contadino italiano del primo Novecento, ma anzi, sull’onda conclamata della “nuova professionalità”, dell’essere militare in un mondo “compenetrato”, dissolve i singoli contingenti-comunità sul pianeta, tra le tante aree di crisi, nell’insorgere di sempre nuove tensioni di una realtà incapace di grandi progetti di pace e di giustizia tra i popoli.

Così essa, i suoi schianti, le uccisioni e le devastazioni perdono, come dire, la vecchia configurazione, pur tremenda e sanguinosa, giungendo a frammentare e disperdere il dolore e l’odio al punto che, forse, essi davvero non trovino spazio  nel moderno cantare della gente. Il che si potrà sapere solo in futuro.

 

Tornando alla dolce nostra canzone, come spesso accade la musica può unire, almeno per brevi attimi, almeno nella privata coscienza, nonostante il frastuono delle armi attorno ( o la desolata solitudine di chi rimane a casa senza poter sapere, prevedere alcunché…) ciò che la guerra divide.

Così, accanto alla stella ‘ bièla’, ai santi tutti del Paradiso, e al loro Signore e Dio, la fanciulla chiede la grazia di non condannarla al silenzio, all’annullamento emotivo, di rendere noto, compreso, forse intravisto tra quelle stelle di una notte di trincea o tra i nembi del fumo acre di morte che la sovrasta il suo grido d’amore, la sua ricerca dell’affetto profondo, indivisibile se non a prezzo dell’aridità del vivere, o del morire, anch’essa, poiché laggiù, nel buio dell’insondabile e dell’imprevedibile, sta il suo cuore, ‘l mio curisin, senza il quale tutto il resto perde di valore, senza eccezione, o alternativa, che il momento consenta.

Per tutte e tutti coloro che attesero e attendono il soldato, e la soldatessa oggi; per tutti i soldati e le soldatesse che, in nome della convinzione patriottica o dell’obbedienza civica o della ‘ fatale necessità’ – della costrizione allora, certo, e per quanti ‘soldatini’ del profondo Sud, e delle profonde disagiate campagne – non poterono opporre alla guerra se non obbedienza o rassegnazione, o ebbero sussulti di ribellione e di autotutela, pagati spesso con la fucilazione sul campo, come drammaticamente ‘troppo più tardi’ si disse e si ammise anche a proposito di osannati generali, Cadorna e Giardino per dirne due.