Il ritorno      ( Testo di C. Geminiani – Musica di Bepi de Marzi )                                                        Torna all'elenco

di Paolo Pietrobon  

 

E’ la storia di un ‘ vincitore ’, uomo comune travolto dalla guerra: universale la simbologia, sventura e predestinazione l’antefatto e l’effetto, fino al punto di ritenere vera disgrazia il fatto di essere stato ‘graziato’ ( per disgrazia ritornò dal fronte’ ).

Uomo-soldato, come i tanti sempre chiamati a quella maledizione, forse, chissà, anche i moderni ‘rambo’ della guerra tecnologica e ‘professionale ’ in fondo a se stessi, nel pozzo privato delle emozioni incedibili? Sconvolto, letteralmente, dalla guerra dei ‘grandi’, oltreché – ma fu assai spesso conseguenza irresistibile - defraudato da quella dei ‘piccoli’ (la fragilità di chi rimane, anche una moglie innamorata), dal ‘ si salvi chi può.…poco importa come…. ’ generato dall’oscuramento della ragione e riversato impietosamente sulle creature ‘minori’ della più crudele lotta di sopravvivenza: le cento corna in fronte al posto dell’alloro al valore.

Ma prima, e insieme, l’ambiguità tristissima di quella donna, essa pure sconvolta, per la quale, nelle parole terribili perché candide del figlioletto alla porta, non si sa comprendere se tra i ‘mestieri’ necessari alla sopravvivenza esistano le voglie più riposte di uomini depredati loro pure, nella contestualità di uno strazio fisico e morale illimitato,  della ‘continenza’ altrimenti ( nel tempo della pace, della razionalità, dell’umanità) dovuta a quella donna e in quella situazione …. ghe xe posto par tutti i congedati / qua i militar soldati / fan tappa note e dì. Quando la stessa popolare domestica parlata, la voce consuetudinaria e rassicurante della borgata, per le altre occasioni complice e solidale, cede al demolitivo pregiudizio risuscitato surrettiziamente dalla guerra cattiva, e a quella fragile donna imputa, quasi a lei prima che all’evento, l’epiteto oltraggioso mormorato, a fior di labbra, a carico del marito-soldato: ‘cornuto’.

Ancora la donna colpevole più degli altri, la donna che doveva resistere, a prescindere, donna tra altre che nelle guerre, sul baratro dello smarrimento assoluto, di una notte che poteva essere l’ultima, di una disperazione debilitante di quei soldatini, loro sì da compatire…. aveva donato uno squarcio di tenerezza, o colto per sè un’intuizione di sopravvivenza.

 

Il bravo soldatino attende con il cuore in gola di vedere salvato lo spazio della felicità sufficiente, ne declina minuziosamente gli elementi cardinali, nel paesaggio e nelle presenze umane, ‘tre case e l’osteria, la ciesa col piovan’…. ‘la me muière, la me putèla’, le condizioni perché la vita sia ‘bella’, e la libertà esista, per lui almeno.

Il trauma della sostituzione, la perdita di un amore forzatamente esposto all’oblìo, la disintegrazione della speranza, dell’unico barlume che fu capace di ‘sospendere’ i fendenti della cieca violenza per quei ‘sinquani manco un mese’, hanno ora la forza di un fulmine annientatore all’apparire sulla porta illuminata di un bambino sconosciuto, angelo incolpevole nell’annuncio del dramma consumato, irrimediabile.

Ma non sopravviene alcuna violenza, nemmeno la recriminazione.

A soccorso del soldato rimane solamente il rientro nella propria cultura generativa, un po’ amore etico, un po’ compassione, e rassegnazione, con l’unica certezza del saper dare l’affetto elementare a chi può riceverne senza perciò costituire ‘contratto’, ‘promessa’, ‘pretesa possessoria’: a quel bambino, alla sorellina, anche quella donna smarrita, perché mamma di quei cuccioli, e donna amata, una volta per tutte. E addirittura la bugia sulla propria identità, per non costringere a ulteriori sofferenze, a prezzo di annullare se stesso e i propri sentimenti….. tanto, quella guerra li ha abituati a essere carne da macello, e poco meno di nulla.

A volerne fare simbolicamente uso, e speranza che vinca la brutalità dei nostri giorni - sui più piccoli, sui più sventurati, sulle troppe donne rese vittime del sussulto virile perverso, quello della sopraffazione, di un diritto inutile e improponibile al primato del ‘maschile’, o del più ‘forte’, a prescindere - quale lezione di umana generosa filosofia, di tensione all’universale perfetto, quello dell’amore e del suo oggetto, anche fuori e contro la storia contingente, promana dai versi della ‘povera’ canzone, del suo ritmo piano, del suo ripercorrere sui passi di un triste acciottolato l’ennesima vicenda della speranza e della disillusione, radicali entrambe, ma del rispetto insieme, della ‘compassione’, a costo della riduzione di quel diritto soggettivo alla rivalsa, all’imposizione, alla soppressione perfino dell’oggetto mancato del nostro desiderio d’amore, anche a costo di un’infelicità accessoria e debilitante.