Appunti di viaggio (Paolo Pietrobon)

Cenni sulla storia della società brasiliana.

Il Nuovo Mondo, prima di essere conosciuto dagli Europei, ha già una lunga storia. Gli Indios d’America si presentano ai "conquistadores" con tratti caratteristici di popolazioni asiatiche che, a tappe successive, avevano raggiunto l’America attraverso lo stretto di Bering. Le nazioni europee fanno a gara nel ricercare nuove vie per il commercio dei loro mercanti, soprattutto da quando Cristoforo Colombo ritorna dalle "Indie" carico di oro e argento.

Il Portogallo, che già durante il 1400 controllava una via di mare per il commercio con l’Oriente (Guinea, Capo Verde, Mombasa, Mozambico, Ceylon, Malacca), finanzia tra gli altri il viaggio di Alvares Cabral, che viene spinto da una tempesta sulle coste dell’attuale Brasile, dove la prima risorsa facilmente accessibile è il legno dell’albero pau-brasil (che significa legno color brace, usato in Europa per ricavarne tintura), e cerca di creare nel vasto territorio nuclei di portoghesi che ne organizzino lo sfruttamento, offrendo forti facilitazioni a chi si trasferisce in Brasile e dividendo la costa brasiliana in 12 capitanìe. I colonizzatori sono sempre accompagnati nella presa di possesso delle terre brasiliane da missionari: la colonizzazione infatti ha una forte componente religiosa, sotto la bandiera della cristianizzazione delle popolazioni via via incontrate.

Inizia quindi nel Nord-Est la coltivazione della canna da zucchero e, di fronte alla necessità di manodopera nelle piantagioni, il tentativo, molto problematico, di schiavizzare le popolazioni indie. Ma è con gli schiavi africani che i portoghesi "risolvono il problema": tra l’altro, dalla tratta di schiavi la corona portoghese trae un vantaggio fiscale ( il dazio pagato dai mercanti sulla piazza di Lisbona), avviando un’attività che si estenderà a Francia, Inghilterra ed Olanda per le rispettive colonie.

Tutto l’intervento nelle colonie tropicali prende l’aspetto di una vasta impresa commerciale che sfrutta le risorse naturali di questi territori per il profitto del commercio europeo, anche e soprattutto a danno delle popolazioni locali, ad esempio rimuovendo le coltivazioni dei prodotti legati al nutrimento tradizionale delle popolazioni a favore della "innovativa" monocoltura, della quale il Portogallo detiene il monopolio mondiale fino all’avvento delle piantagioni olandesi nelle Grandi Antille e franco-inglesi nelle Piccole Antille e in Giamaica, e al precipitare del Nord-Est, insieme con il prezzo dello zucchero, nella miseria in cui permarrà fino ai nostri giorni.

Tra il 1700 ed il 1800 conosce il suo acme e la sua decadenza il ciclo dell’oro, con la scoperta dei giacimenti di Minas Gerais, un impetuoso afflusso di uomini, mezzi e capitali, la realizzazione di un sistema di nuclei abitati separati da immense aree deserte che caratterizza ancor oggi il centro-sud del Brasile, uno sviluppo complementare della agricoltura e dell’allevamento e la fondazione di nuovi centri destinati a diventare metropoli (Rio de Janeiro, 1763). La decadenza verrà per la progressiva svalutazione della qualità di quell’oro, data l’origine alluvionale, i mezzi estrattivi rudimentali e la pretesa della corona del deposito di un quinto dell’oro estratto nelle casse reali (una sollevazione popolare del 1792 contro tale iniqua gabella, il cui capo è rimasto famoso con il nome di Tiradentes, viene soffocata nel sangue).

Nel 1808 i regnanti portoghesi fuggono in Brasile, mettendo in primo piano gli interessi del paese, ora libero dalle restrizioni che l’avevano tenuto legato al Portogallo. Ne beneficia l’Inghilterra che ora commercia direttamente con il Brasile, mentre i commercianti portoghesi che detenevano il potere economico si vedono messi in secondo piano a favore dei grandi proprietari terrieri locali i cui prodotti non sono più sottoposti al monopolio commerciale portoghese. Questo nuovo ceto assume forza ed autorevolezza politica e, nel nuovo clima, il re è indotto a concedere l’indipendenza e la Costituzione, nel 1822, anche se l’organizzazione sociale rimane praticamente intatta, tanto quanto le contraddizioni nascoste nella società coloniale, che vengono alla luce ed esplodono in agitazioni tendenzialmente endemiche.

In Brasile, il movimento indipendentista non elimina lo schiavismo, anzi lo rafforza, nonostante che le idee illuministe provenienti dall’Europa abbiano una qualche ripercussione negli ambienti intellettuali. E l’Inghilterra, responsabile principale della tratta dei negri nel 1700, diventa paladina dell’abolizione della schiavitù quando sia l’eccessivo costo degli schiavi, sia la perdita delle colonie nordamericane vanificano i vantaggi economici della tratta. Solo dopo trent’anni, nel 1850, il Brasile, da buon ultimo, abolisce la Tratta, separando così la propria storia dall’esclusivismo mercantile della metropoli portoghese e aprendolo al mercato internazionale. E’ in questo momento che nascono le prime industrie manifatturiere, soprattutto tessili ed alimentari, si avvia la coltivazione del cotone e la coltura del caffè si sviluppa nella parte meridionale del paese fino a diventare nel secondo ottocento il più importante prodotto di esportazione. Allorché l’abolizione della schiavitù è un dato acquisito, il ceto degli agrari toglie l’appoggio all’Imperatore Pedro II: nel 1889 egli viene cacciato da una insurrezione di militari, il Brasile è proclamato repubblica e si dà la forma di una federazione. Strettamente legato problema della schiavitù e della carenza di manodopera è il fenomeno dell’ immigrazione, e grosso centro d’emigrazione diventa in questo periodo l’Italia, paese nel quale, negli anni successivi all’unità d’Italia, la crisi economica e sociale del Sud e di altre zone depresse, la mancata riforma agraria e le imposte schiaccianti portano le popolazioni meridionali alla rivolta (brigantaggio) o, intravista come possibile via d’uscita, all’emigrazione.

Tra otto e novecento si fa massiccia la penetrazione in Brasile del capitale finanziario europeo e nordamericano, e la Prima Guerra Mondiale in Europa offre l’occasione per il grande balzo dello sviluppo industriale del Brasile: gli eventi bellici infatti impediscono le importazioni in Brasile e conseguentemente la produzione locale deve sopperire. Le industrie principali sono quelle tessili ed alimentari. La zona di San Paolo è la più coinvolta, dato il suo potenziale idroelettrico e la presenza di manodopera abbondante. Malgrado questo sviluppo, di debole struttura, il capitalismo internazionale riprende ben presto la sua penetrazione: ricominciano le importazioni di manufatti superiori a quelli locali e l’industria diviene sempre più sussidiaria alle grandi imprese statunitensi.

Solo la crisi economica da sovrapproduzione del 1929 interrompe tale flusso di capitali, facendo cadere inoltre il prezzo del prodotto leader dell’esportazione brasiliana: il caffè. Nel riattizzato conflitto tra grandi latifondisti e borghesia produttiva nazionale, si inserisce la rivolta (ennesima!) di alcuni settori militari, il movimento dei tenenti, che diventa espressione di diversi strati della società: così il Governo di Getulio Vargas(1930) dà l’avvio al processo di sviluppo del capitale nazionale, con l’obbligata attenzione alle rivendicazioni popolari (leggi sul lavoro e nuove norme elettorali) ed il vantaggio, come già avvenuto durante la Prima Guerra Mondiale, della caduta di importazioni dai paesi più industrializzati in crisi (un "giolittismo alla brasiliana"?…).

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il Brasile rompe i rapporti con la Germania e si allea con gli Stati Uniti; un contingente brasiliano interviene in Europa a fianco degli alleati. Vargas, richiamato al Governo, lancia un programma di sviluppo e di nazionalizzazioni apertamente contrario all’oligarchia latifondista e ai grandi capitali stranieri: monopolio di stato del petrolio (PETROBRAS) e dell’energia elettrica, controllo delle esportazioni degli utili dei capitali stranieri investiti in Brasile, riforma agraria per ridistribuire la terra ai contadini, ma una situazione di gravi pressioni economiche all’esterno e di palese mancanza di appoggio popolare all’interno porta Vargas al suicidio(1954).

E del resto il progetto politico del desarrollismo (lo sviluppo a base nazionale) non si realizza, generalmente e specificamente nella realtà "sudamericana", senza un sostegno delle diverse componenti sociali, sovente ottenuto attraverso una politica di pace sociale che assume il nome di populismo. Essa si basa su iniziative presentate come "nazionali" e che danno l’immagine di uno stato al di sopra delle parti, e si incarna in un "capo", il quale, nel mentre sostiene gli interessi della borghesia nazionale, cerca di "rispettare" taluni privilegi dei latifondisti per prevenirne pericolose prese di posizione, e fa concessioni, non sempre rispettate, ai ceti popolari del cui consenso ha necessità. Così, dopo l’ultimo governo desarrollista di Goulart(1962/64), anch’esso fallito, un colpo di stato porta all’ occupazione militare del paese: durante il Governo del maresciallo Castelo Branco, i militari eliminano le opposizioni, vietano ogni statalizzazione dell’economia, restringono le libertà politiche e riducono le conquiste sociali precedenti, anche contro gli interessi della borghesia che li aveva appoggiati (limiti al potere legislativo e giudiziario). Inoltre, a causa di misure restrittive del credito e della diminuzione della domanda di beni di consumo(in seguito al blocco dei salari), numerose aziende nazionali sono costrette al fallimento o all’assorbimento da parte dei gruppi monopolistici stranieri. Non manca ovviamente un’illusione di "miracolo economico": l’espansione dell’industria controllata dall’estero consente l’aumento del prodotto interno lordo brasiliano, ma questo aumento non è dovuto ad un maggior dinamismo degli investimenti brasiliani, quanto alla presenza attiva del capitale straniero, con la conseguenza -strutturale nel paese di quegli anni- di una sostanziale dipendenza dai fornitori di detti capitali finanziari, gli Stati Uniti in primo luogo.

E’ utile ricordare, concludendo questa parziale panoramica, che il Patto Andino del 1971, voluto dal Cile di Allende e sostenuto da Bolivia, Perù, Equador e Colombia, fu appunto sintomatico dei timori e dei contrasti generati dallo sviluppo di economie prevalentemente estranee agli interessi della stragrande maggioranza della popolazione del continente. Esso stabiliva che le rimesse all’estero da parte delle multinazionali operanti entro le frontiere di quei paesi non potevano superare il 14% dei profitti, ed inoltre accettava il compito storico di nazionalizzare tutte le imprese internazionali entro 15 anni.

La risposta, come tutti ricordiamo, non si fece attendere, e non solo nel Cile.

Riduzione ed adattamento a cura di Paolo Pietrobon da:

" Perché il Brasile ? " - Centro di Documentazione – Pistoia – 1974

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