"EMIGRANTI"

La canzone dell'immigrazione è quasi l'inno nazionale nel Rio Grande do Sul

"Angelo Cavallet e Pasqua Rosset arrivano in queste lande nel 1875 provenienti dalla provincia di Belluno (la signora che mi ha raccontato questa storia, Adelinda Cavallet di Bento Gonçalves, non conosce esattamente il paese di origine dei suoi bisnonni in quanto nel corso di 125 anni si è persa la memoria storica).

Il governo del Brasile assegnò loro, sulla carta, un pezzo di terra e quando giunsero sulla loro "proprietà" scoprirono che si trattava di foresta ("mato") di araucarie. Non c’era altro da mangiare se non i pinoli e proprio di questi, e solo di questi, si sfamarono nei primi mesi di permanenza. Perciò, oltre ad iniziare il disboscamento per iniziare altre culture, si dedicarono alla raccolta dei pinoli ed alla loro commercializzazione. Ma per poterli portare al mercato più vicino dovevano percorrere, ogni giorno, 20 Km di andata e 20 di ritorno, non per sentieri o strade, ma attraverso la foresta e, quindi, con molta fatica e con numerosi pericoli anche per la presenza di animali selvatici che, allora, non mancavano. Con il ricavato di questo commercio, pochi anni dopo, Angelo Cavallet e Pasqua Rosset si fecero raggiungere dagli altri famigliari."

Questa storia, diversa, ma nello stesso tempo simile a tante altre storie di emigranti che a fine ‘800 iniziarono la colonizzazione di quella parte del Brasile, mi dà lo spunto per parlare nuovamente dei canti di emigrazione.

Nel nostro repertorio è presente il canto "Emigranti", conosciuto anche come "Merica, Merica", (Vedi Marmoléda n. 2 (9) ottobre 2001), canto conosciutissimo nel Rio Grande do Sul perché riassume le storie e le vicissitudini di quegli italiani che abbandonarono il luogodi nascita e gli affetti più cari per cercare fortuna in terre lontane;"… è più dell’Inno di Mameli …" mi confessava, il giorno prima del nostro rientro, la rappresentante del Circolo Italiano di Carlos Barbosa "Stazione 35", ma noi ce ne eravamo già accorti. Fin dal primo concerto, alla fine dell’ esecuzione di "Emigranti", tutto il pubblico si alzava in piedi ad applaudire lungamente. Si sentiva in sala la commozione del pubblico, ma non solo: anche noi coristi venivamo presi da questo nobile sentimento che sortiva anche l’effetto di una migliore interpretazione.

Quando poi ad applaudire furono i 1300 presenti nella Cattedrale di San Joâo Baptista della città di Santa Cruz do Sul restammo attoniti, anche perché oltre il 50% dei presenti non era di origine italiana ma tedesca; evidentemente le storie dei loro antenati erano simili, sia per gli italiani che per i tedeschi: erano tutti emigranti, tutti avevano "… dormito sul nudo terreno … " e senza avere un po’ di paglia per poter poggiare la testa; per tutti "…l’America l’è lunga e l’è larga, circondata da fiumi e montagne …" , e tutti avevano contribuito a costruire il Brasile attuale.

Quando poi arrivammo a Relvado, piccolo paese nel quale tutti parlano il "talian", un misto dei vari dialetti veneti di fine ‘800, fummo accoltii alla discesa dal pullman da un gruppo di signore che, accompagnate dal suono di una fisarmonica, ci dà il benvenuto a Relvado cantando "Merica, Merica", cioè la loro versione di "Emigranti".

Nel nostro peregrinare in quei luoghi abbiamo visitato il "Monumento all’emigrante", i "Caminha de Pedra", il "Museo dell’Emigrazione" di Vale Veneto, tutti luoghi in cui si toccano non solo le conquiste, ma anche i drammi di quella gente. Ai Caminha de Pedra, luogo della prima emigrazione sono ancora in piedi e restaurate alcune case di fine ‘800 – primi ‘900. Vicino ad una di queste, ora adibita a ristorante tipico, un enorme albero ("Umbu" ed in dialetto "Maria Mola") con una cavità ai suoi piedi così grande che dentro la stessa trovarono rifugio i primi emigrati che giunsero in quel posto. Presso Vale Veneto un piccolo cimitero ricordava, attraverso le sue lapidi, le tragedie: soprattutto tombe di bambini, ma anche di chi non reggeva a malattie nuove o a fatiche e disagi.

La storia dell’emigrazione e fatta anche da chi non riusciva ad arrivare alla "terra promessa": le navi di allora venivano caricate più del consentito e nelle stive, dove viaggiavano i più miseri, numerosi erano i decessi soprattutto per il caldo e per le varie infezioni causate dalla convivenza troppo ravvicinata. Ma, a volte, era proprio la nave a non arrivare a destinazione vuoi per la violenza della natura vuoi per cause "strane" come il sovraccarico o l’errore umano. Una di queste storie la troviamo in un altro canto, non molto conosciuto da noi (per quanto a mia conoscenza non l’ho sentito cantare da alcun coro e non fa parte di molti repertori) ma, invece, conosciuto forse di più in Brasile. Infatti in un CD che ho ricevuto in omaggio da una famiglia di musicisti con il mio stesso cognome (ma questa è un’altra storia) ho trovato questo canto intitolato "Il Sirio" che si ispira al naufragio avvenuto il 4 agosto 1906.

Il piroscafo "Sirio", della Compagnia Generale di Navigazione Italiana, partito da Genova, stava procedendo a forte velocità, forse per recuperare il tempo perso in uno scalo non previsto (porto di Alcira in provincia di Valencia) per imbarchi illegali a 100 pesetas l’uno; a poche miglia dalla costa spagnola (Capo di Palos), nonostante il mare calmo e la visibilità ottima, un tremendo impatto con uno scoglio, fa sì che in poco tempo la nave affondi. Il numero delle vittime è controverso come pure il numero dei viaggiatori. In effetti le cifre già allora non quadrarono in quanto la somma delle vittime più i naufraghi salvati superava la lista ufficiale dei passeggeri; la stessa storia si ripete anche ai giorni nostri!

Sergio Piovesan

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