A
sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale con i suoi lutti e le
sue distruzioni, in un paese ed in un Europa che, nonostante la guerra fredda,
hanno vissuto il più lungo periodo di pace della loro storia è ancora
necessario e, soprattutto ha ancora senso
CANTARE LA GUERRA?
di
Paolo Pietrobon
Di
queste case
non
è rimasto
che
qualche
brandello
di muro
Di
tanti
che
mi corrispondevano
non
è rimasto
neppure
tanto
Ma
nel cuore
nessuna
croce manca
E’
il mio cuore
il
paese più straziato
(
G. Ungaretti )
Da
qualche tempo l’amico Sergio Piovesan, nel presentare le esecuzioni del Coro
Marmolada, sottolinea l’opportunità di una scelta repertoriale che mantiene
viva l’attenzione sulle “canzoni di guerra”, per quanto esse ricordano e
salvano da un oblìo facile, per non dimenticare, appunto, e per
riaffermare, soprattutto davanti alle coscienze dei più giovani, la assoluta
tragicità e follia, ieri come oggi, di ogni guerra. Sentite con quale impegno
morale vi si riferisce Carlo Bo nella sua presentazione a “Centomila gavette
di ghiaccio”: “(essa fu) il risultato di una sopraffazione
aberrante...risultato della lezione di Caino che recitiamo e seguiamo da secoli.
Quelle colonne di moribondi sulla neve (i soldati italiani in ritirata dalla
Russia) non facevano che
raggiungere le innumerevoli folle di condannati che le avevano precedute...lo
spettacolo della ritirata era soltanto la conferma di principi stabiliti e
seguiti molto prima. Quegli uomini erano le ombre del male, le vittime di una
catastrofe morale e spirituale che andava ricercata altrove...così il silenzio
di morte di quelle pianure non era che la risposta impotente a chi si era
arrogato il diritto di parlare per tutti ” (1).
Proprio
così, perché anche oggi, in un presente davvero tormentatissimo, esiste una
contraddizione sensibile tra un giudizio diffuso e negativo, quasi una
infastidita ripulsa, sulla cantabilità dei temi e delle atrocità delle guerre,
quasi si possano ritenere segni di stanchezza e ristretto tradizionalismo nel
canto di ispirazione popolare, ed il fatto, ahimè innegabile, che proprio il
presente di noi tutti è frastornato e condizionato dall’imperversare, in non
pochi luoghi del pianeta, di focolai e teatri di guerra, forse non quella dei
documenti e dei ricordi che hanno formato la coscienza storica delle ultime
generazioni, ben richiamata dalla citazione sopra riportata, ma altrettanto
crudele e devastante, orribilmente beffarda quando si pretende di definirla
“intelligente”.
O
meglio esiste una distinzione, che spesso è separazione -generazionale e
culturale- tra il rifiuto della guerra, che pure e da sempre è ascoltato e
cantato dai “più giovani” (per farne uno sbrigativissimo cenno, dalla
canzone di Joan Baez e Bob Dylan, anni ’60 e ’70, in poi, fino alla
“Guerra di Piero”, del cantastorie genovese De André), ed il sentimento
della guerra quale risulta, prevalentemente ma non esclusivamente, dai
repertori dei nostri cori d’ispirazione popolare.
Non
esclusivamente dicevo: infatti tali repertori sono innegabilmente ed in grande
misura riferibili al sommovimento risorgimen tale italiano ed alla Prima Guerra
Mondiale, con importanti collegamenti ad esperienze, se non di guerra in senso
proprio, di conflitti “confinari” o “internazionalisti” (si pensi ai
secolari confronti armati con cui si giunse, sul bordo nord-occidentale del
nostro paese, alla definizione di un Regno di Sardegna proteso alla dimensione
nazionale cisalpina, e quindi
al superamento della stagione post-feudale e signorile con le sue suggestioni
eroiche e le sue saghe familiari e dinastiche e con la conseguente e consistente
germinazione di una letteratura popolare piemontese e lombarda; o, sul confine
opposto, alle tensioni e agli incidenti che possiamo codificare come inerenti
alla questione slovena e, più estesamente, istriana; ma anche, sul
versante internazionalista, al richiamo, tra altri possibili, alla Resistenza
contro il golpista Generale Franco, nella Spagna del 1936/39, allorché si trattò
di rivendicare la sopravvivenza del legittimo governo repubblicano, richiamo
iscritto in una straordinaria invenzione ritmica e musicale dal Paolo Bon di ¡Viva
la Quince Brigada!). E certo detti repertori manifestano (con evidenti
timidezze a dir il vero) un loro richiamo a quel fondamentale rivolgimento di
liberazione e ricostruzione democratica che fu per noi positivamente la
Resistenza.
Va
detto però, nel “nostro ambiente” e fuori di esso -perché poco davvero se
ne sa- che sono riscontrabili nel materiale trasmessoci dalla tradizione
popolare e nella produzione, testuale e musicale, di autori “nuovi” per il
nostro genere (ancora Bepi De Marzi ed il citato Paolo Bon, ma non essi
solamente) motivi, ispirazioni ed attitudini per un canto corale di ispirazione
popolare sicuramente convincenti e “modernamente” suggestivi, per la
discontinuità dell’invenzione melodica e dei contesti armonici e per
un’aggiornata costruzione poetica e simbolica dei testi, i quali possono
comunque trattare di guerra, ma alludono alla guerra, in senso
universalistico, e sono collegati ad una percezione e ad un “risentimento
interiore” di essa post-risorgimentali e post-unitari, formatisi gradatamente
negli anni della “guerra fredda” e del ricorso sempre più frequente a
strategie ed organizzazioni belliciste di carattere mondiale e nucleare, in
sostanza alla sensazione vasta e drammatica del fatto che, oggi, qualsiasi
politica di guerra assume un carattere di oscuramento e negazione della stessa
speranza di vita per intere generazioni, per i singoli individui, su scala
planetaria.
Per
tutto ciò (nei limiti delle mie conoscenze, che conosco e temo, ma che mi
piacerebbe fossero integrate, sul nostro giornale, da altri interventi) ho
pensato di affidare a Marmoléda alcuni approfondimenti
su aspetti diversi della “canzone di guerra”, puntando
conclusivamente a metterne in evidenza testi e caratteri, in qualche modo
letterari e simbolici, appartenenti o appartenuti al repertorio del Coro
Marmolada, e lasciando all’amico Sergio, che già e bene se ne occupa, le
ricostruzioni filologiche ed ambientali.
Il
tentativo sarà quello di mettere in evidenza da un lato i sentimenti del
soldato in quanto uomo e della guerra quale esperienza ad un certo momento
radicale ed incontrollabile, dall’altro i valori poetici e simbolici
universali rintracciabili in parte di tali canti, a favore quindi di una
rivalutazione critica del canto che se ne occupa e della migliore comprensione
che se ne possa fare da parte di chi ci ascolta e ci legge. Rimango convinto di
quanto affermato in apertura: poiché all’arte competono, a mio parere,
linguaggio e canoni estetici autonomi, svincolati da qualsiasi interesse
contingente o dalla pressione dei poteri, ma l’arte medesima vive nel contesto
delle persone e delle
culture attive nella comunità, è importante che chi se ne rende interprete e
promotore -quindi anche i presentatori dei
repertori corali- renda espliciti i criteri organizzativi ed i riferimenti
storico-culturali di un dato repertorio, al fine di rendere attiva e
protagonista la libera attività di ricezione e la consapevolezza del pubblico.
Si
tratta insomma di accompagnare al piacere di cantare insieme la disponibilità a
lavorare intorno alla cultura e alla tradizione popolare, di ieri e di oggi, con
una qualche professionalità.
Voglio
infine chiudere la mia riflessione tornando alle dimensioni sopra richiamate di
incontrollabilità e radicalità della guerra, soprattutto a danno delle
popolazioni, della gente più semplice e indifesa, facendomi aiutare da due
brevi estratti del De Marzi scrittore che io trovo reali ed umanissimi: “ Il
parlare (ad una cena di modesti contadini) -domande, risposte, ricordi,
sospiri, memorie- si era inviato tutto dalla Inaugurazione del Monumento ai
Caduti: un avvenimento commovente grandioso importante per tutto il paese, perché
non c’era una sola delle trecento e passa famiglie di Nogarole Alvese Restena,
e delle altre contrade più piccole, che potesse chiamarsi fuori dalle disgrazie
della guerra; che non avesse avuto il suo morto da piangere...”. Ed oltre:
“A mezza mattina, suona un allarme di sirene: tornano a bombardare! Chi
grida, chi piange, chi impreca, tutti cercano di scappare; ma c’è chi dal
grande spavento perde la parola e la forza per correre...” (2).
Tornerò
sulle cante di guerra di Bepi De Marzi, ma anche in ciò che egli racconta, che
si può raccontare, con forte emozione e risentimento interiore, non è
difficile intravedere la trama di una trascrizione musicale, di un’armonia.
Davvero si potrà rimanerne indifferenti?
(1)
Dalla presentazione di Carlo Bo a “Centomila gavette di ghiaccio”, di
G. Bedeschi, Mursia Ed. 1963/81.