Se jo vès di maridami

di Sergio Piovesan

Continuando col "raccontare" i canti del repertorio del "Marmolada" è la volta di un canto friulano, o meglio, carnico. E parlo di "Se jo vès di maridâmi" (Se dovessi sposarmi). E’ stato inserito in repertorio appositamente per la tournée argentina del 1988 e questo perché sapevamo che oltreoceano avremmo trovato molti friulani, cosa, che effettivamente, si dimostrò esatta.

E’ un canto popolare e l’edizione che noi cantiamo è stata armonizzata da Antonio Pedrotti e cantata per prima dal Coro della S.A.T. di Trento; per questo è diventato conosciuto anche fuori dai confini del Friuli. Il motivo allegro accompagna un testo che non è altro che una serie di considerazioni che una ragazza carnica fa in vista di un possibile matrimonio.

Se jo vès di maridâmi,

un cialiâr no cjolares.

Al è bon dì bati suelis

ancje me mi batares.

Cun chei quatri ch’al guadagne

nol mantèn nàncje un polez.

Beneditis lis cjargnelìs

benedez i lor paìs.

Questo è il testo che, tradotto, dice pressappoco così: "Se dovessi sposarmi, non prenderei un calzolaio. Lui è capace soltanto a battere suole e batterebbe anche me. Con quei quattro soldi che guadagna non mantiene neppure un pollo. Benedetti i carnici, benedetti i loro paesi.".

Ma i canti popolari, quelli veramente popolari, hanno più versioni in quanto, nei secoli scorsi, i testi e le musiche, trasportati da un luogo ad un altro da viaggiatori e mercanti, venivano appresi e modificati con l’andare del tempo, adattandoli al momento, alle esigenze del linguaggio alle vicende paesane ed a tante altre cose.

Quest’estate, durante il mio soggiorno in Carnia, ho fatto un po’ il topo di biblioteca e, su pubblicazioni specializzate di qualche anno addietro, ho trovato ben cinque testi diversi raccolti in altrettanti paesi di vallate diverse.

Se nella nostra edizione i carnici sono benedetti, la ragazza di Piano d’Arta (Valle del But), invece, non vuole un conterraneo perché:

… lui al quinze la mignestre

siet, vot voltis cun tun vuès

(… lui condisce sette, otto volte la minestra con lo stesso osso). In effetti la ragazza riconosce la parsimonia della gente di montagna friulana, caratteristica questa dovuta senz’altro alle difficoltà di vita e di lavoro che, sempre, hanno contraddistinto questa regione.

Ma se andiamo ad Ampezzo, nella Valle del Tagliamento alla confluenza con il torrente Lumiei, proveniente dal lago di Sauris, il testo raccolto da Franco Escher nell’ottobre del 1933, dice:

… nò in Sauris nò larès:

‘a è la blava tant lontana,

si consuma piel e vuès.

(… no, non andrei a Sauris; là il fieno è tanto lontano che, per raccoglerlo, ci si consuma pelle e ossa.). Ed anche qui si riscontrano la difficoltà di campare e la fatica del lavoro.

Ma c’è anche chi la prende con allegria ed allora, a Priola, sempre raccolti da Franco Escher, i versi sono:

… vores cjoli un picinin;

vores fâj las braghessutes,

con tun brac’ di ragadin.

(… vorrei prendere un piccolino; vorrei fargli i calzoncini / con un braccio di tela).

Abbiamo quindi la versione di Paluzza (alta Valle del But),

Un fi sôl no cjolarès;

lui mi mangjarès la dote,

poi mi mande a raspâ uès.

(… un ragazzo solo non prenderei; lui mi mangerebbe la dote, poi mi manderebbe a raspar ossi.), dove " fi sôl" significa figlio unico, quindi viziato; questi finirebbe col dilapidarle la dote per poi lasciarla in miseria.

Ed infine un’ultima edizione, della quale non viene riportata la provenienza, forse più moderna ed adattata alla città; infatti riprende l’edizione di Paluzza e sostituisce "un cjargnel" con "un student" che, e mi riferisco soprattutto agli studenti di una volta, erano sempre senza soldi.

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