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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Ottobre 2018 - Anno 20 - N. 3 (77)

 

CANTI DELLA TRADIZIONE DAI NUOVI MIGRANTI?

di Paolo Pietrobon

 

Ho trovato ‘ intrigante ’ quest’occhiello del quotidiano AVVENIRE firmato da Stefano Pasta qualche mese fa: “Mamma mia, dammi mille dollari che in Libia voglio andar". Nell’Oltrepò Pavese così è stato trasformato il canto popolare che nella seconda metà dell’Ottocento era l’inno degli immigranti dell’Italia settentrionale. Allora la meta era l’America, il prezzo cento lire e i connazionali in partenza ( oggi diremmo migranti economici, la maggior parte in modo illegale ) erano molti di più di coloro che negli ultimi anni sono sbarcati in Italia: in meno di 100 anni, più di 25 milioni. E dalla loro storia, o meglio dai loro canti, che la facilitatrice linguistica Charo Segrè della Cooperativa FinisTerrae insegna l’italiano ai richiedenti asilo di Varzi, Casa Matti, Montacuto e Godiasco, sugli Appennini. ‘ Le canzoni popolari degli emigranti italiani – spiega Segrè – sono adatte per imparare la lingua, anche perché hanno una sintassi facile, frasi che si ripetono, immagini che si possono disegnare ’.

Per studiare l’imperfetto ha proposto la filastrocca ‘ Ero in botega, tic tac ’, diventata ‘ Ero in Libia, tic tac’. ‘ E’ piaciuto scoprire – dice – un elemento di comunanza con la storia degli italiani. Un fatto inaspettato, che li ha molto stupiti ’….

Questo ha interrogato anche la popolazione dei comuni interessati, dove tutti hanno un parente emigrato in Argentina o altrove ….”

 

Difficile, forse affrettato, trarre da un resoconto di cronaca elementi utili alla nostra ricerca di materiali, luoghi e condivisioni che diano alito e verità nuovi ai repertori e alle sensibilità culturali del ‘ nostro mondo corale ’ in crisi. Difficile, ma necessario, puntando la nostra attenzione – a partire dalle dimensioni più composite, quale per noi l’ASAC, ma anche da relazioni e vicinanze da poter intraprendere con le presenze organizzate dei migranti nel nostro veneto e veneziano – su quel ‘ nuovo popolo errante ’ che tocca e attraversa le nostre contrade e, già in parte, è popolo come noi, almeno considerando gli stranieri in possesso della cittadinanza italiana, e non può essere ammesso agli onori della cronaca solamente perché rimpingua di risultati sportivi e di contributi assicurativi le nostre casse nazionali in un caso e nell’altro almeno deficitarie.

Propongo allora di ri-considerare i presenti elementi:

·        L’intuizione e primaria elaborazione del compianto Paolo Bon sul tema ‘ MEDITERRANEUM PONTUM ’, a proposito della quale voglio riportare una delle conclusioni dell’incontro con lui organizzato nella nostra sede qualche anno fa: “ Culturalmente  sul ‘mediterraneum pontum’, il mare della nostra Venezia e della venezianità, viaggia una trama di memorie e innesti sonori, verbali, emozionali dai quali possono essere tratti ispirazione e moduli musicali impensati. E non solo -  come nella cronaca d’avvio -  per trasferire nel  desiderio di condivisione dei migranti una riscrittura e un canto imitativi della ‘nostra’ propensione culturale a rammentare, celebrare, ecc. Anche per non condannare a piattezza e banalità tali sentimenti e storiche vicissitudini, viste e considerate operazioni demenziali a proposito di radici culturali o ‘etniche’ da supporre o imporre al cosiddetto ‘ sentimento venetista ’ quale il defunto ‘rito padano’ dell’acqua che, anno dopo anno, la Lega Nord, capo carismatico in punta di prua, insisteva a portare dalle foci del Po alla nostra Laguna, volendo forse alludere a un circuito salvifico e identitario che agglutinasse e proteggesse le ‘genti padane’.

Mentre  quell’acqua giunge alla laguna, e dalla laguna al mare, senza soluzione di continuità, senza sbarramenti per chicchessia: essa da millenni trascina a valle i materiali e le merci e gli idiomi di tanti popoli diversi, e tutto ciò consente di proiettare sul mare verso altri popoli e altre rive, e da quel mare riceve inevitabilmente vitalità e relitti d’altre ancora civiltà e suoni ed eventi, e tutto infine, sulle stesse zattere e con le stesse movenze, orali e gestuali appunto, riporta alle origini sue, in un invincibile e ininterrotto flusso di esperienze. Cosicché cultura e ‘umanità’ non ne siano violentate, rattrappite ”.

Ma, al di là del dato di attualità, Paolo Bon indicava un ambito straordinario di indagine e riscoperta, probabilmente un giacimento vasto di nuova ‘parola’ e di nuova ‘musica’, tendenzialmente universali negli stilemi e nei moduli espressivi in esse sepolti.

 

·        L’esistenza di esperienze, oggi, importanti proprio sul terreno di una condivisione rispettosa e curiosa delle vicende culturali che attraversano il nostro ‘piccolo ormai pianeta’: anche nel veneziano, tra altri certamente, il grande lavoro per una coralità interetnica e autentica condotto da Beppa Casarin.

 

·        Il lavoro di importanti associazioni culturali e mediatori/trici linguistico-culturali attivi nelle istituzioni educative, nel senso di cercare e offrire disponibilità e competenze capaci di avvicinare quei ‘ popoli ’ e arricchirci delle loro narrazioni, del loro cantare, come noi facciamo, le cose per loro significative, anche se sepolte nella caoticità e nella miseria estrema di tanta loro provvisorietà e ‘ clandestinità ’, etica e relazionale.

 

N.B.: E se qualcosa di ‘rilevante’ da questo punto di vista, per il ruolo che legittimamente il Coro Marmolada può assumere nel veneziano e non solo, volessimo organizzare, anche strategicamente, all’interno del ‘ Settantesimo ’? Uno stimolo nuovo e un aggiornamento, almeno tematico possono rafforzare anche una buona e dignitosa tradizione? Buon lavoro a tutti.