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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2018 - Anno 20 - N. 4 (78)

 

Quelli che "sono in coro" dalla nascita….

di Paolo Pietrobon

Quante volte, chiedendoci il perché di tanta difficoltà da affrontare per avvicinare i più giovani alla musica e al canto popolari, concludiamo con la considerazione del fatto che oggi prevale l’individualismo nel consumo culturale … è desueta la ‘nostra’ predisposizione alla gita collettiva… al canto collettivo nelle occasioni di festa o negli ambienti suggestivi ( una baita di montagna, la piazzetta solitaria di una città alla sera, la cantina di qualche amico ) … insieme insomma, in quella suggestione magica che tocca le corde più recondite del sentimento.

Ma non è questa discussione l’oggetto del mio ragionamento, anche se voglio ricordare che ai concerti pop, o gospel, e pure ai recital dei più accreditati/popolari cantautori, accorrono battaglioni di ragazzi, cantano tutti assieme per ore, vivono forti emozioni collettive ….

Allora - mi sono chiesto -  da dove viene la mia/nostra passione per il canto corale popolare?

Parlo per me, ovviamente, ma se altri vorranno aggiungersi potrebbero sortirne dei racconti dilettevoli, magari utili, perché no?

Da bambino, soprattutto durante la vacanze in campagna presso i nonni paterni, nelle messe solenni di allora, ‘ e messe ultime ’, mi sentivo trasportare dalle evoluzioni delle voci virili della Schola Cantorum, e dall’architettura ieratica, ed enfatica spesso, della musica perosiana e dello strumento principe della sua esecuzione, l’organo, la macchina straordinaria che più di ogni altra vorrei saper oggi utilizzare. Troppo tardi, sarà per la prossima vita …

 Risentivo poi quelle note negli incontri di famiglia, vedevo papà e zii assumere posture ispirate, gaudenti dico oggi, e percepivo una dimensione di forza, di bellezza, di importante appartenenza.

 

Diversamente avvenne un giorno che feci visita al nonno materno, un paesino più in là, che vedevo di rado. Lo ricordo nettamente: persona schiva, minuta, silenziosa, dava  l’impressione di un uomo attento e arguto; non la statura del contadino tutto viso bruciato dal sole e mani d’acciaio. Di lui giovane si raccontava che non fosse infrequente la sua visita a crocchi di amici nelle case vicine che amava stupire fingendo di leggere un giornale da un foglio rigorosamente bianco e ottenendo sempre la scontata attestazione di sorpresa e ammirazione per le sue davvero rare capacità inventive e recitative. Il fatto però non era dovuto a casualità, poiché nonno Éto era conosciuto come tenace lettore di giornali, cosa non proprio frequentissima al tempo, e quindi poteva con buona disinvoltura riproporne ai suoi uditori brani senz’altro attendibili!

Credo di dovere anche a lui la mia passione  per il canto corale: indimenticabile il suo modo di ascoltarla con i poveri mezzi del tempo, seduto su uno sgabello in un angolo della scarna cucina, gambe accavallate e braccia conserte, assorto e quasi distante dal generale affaccendarsi, ma improvvisamente in piedi, sullo sgabello, a regolare la manopola della grossa radio per coglierne meglio le sonorità tanto amate e piangere di commozione. Era un’aria operistica che gli produceva tale identificazione e che trattengo, intatta ed emozionante, ‘La Vergine degli angeli’, dal capolavoro romantico della verdiana ‘Forza del destino!

Non lo sapevo, ma avevo conosciuto il melodramma: il canto del popolo in cammino, del popolo riparatore, dell’implorazione, del gaudio, del dolore e dell’esecrazione, ma sempre in una eco generosa, quella della voce della giustizia, o della pietà, dello stupore, della meraviglia. Sentimenti dunque, e aspirazioni profonde, che muovono il ‘dentro di noi’ e lo rendono disponibile all’abbraccio, all’alleanza, alla lotta giusta e generosa …

 

Più grandicello fui iscritto all’Istituto Cavanis di Venezia, grande istituzione educativa, ma con l’obbligo di sentir messa tutte le mattine, domenica compresa.

In Sant’Agnese, nei giorni di festa, centinaia di giovani predestinati al cattolicesimo militante preconciliare, altrettanti genitori a coprire le ali della falange, cantavano all’unisono, con travolgente vigore, gli inni di quella stagione, roba che S. Ignazio di Loyola a sentirli avrebbe applaudito dalla tomba. Credo le nostre ‘voci’ arrivassero  fino alla Giudecca: ‘ Noi vogliam Dio ch’è nostro re!.... Christus vincit, regnat, imperat!....

Qui l’ispirazione era pochina, prevaleva l’abito imitativo, anche se, in qualche momento, la forza di certe acclamazioni ed invocazioni riusciva a trasmettere il senso di un’impresa collettiva vibrante, robusta, magari pochi istanti, senza che se ne facesse parola o commento.

 

Venne il Liceo, con il Greco e il Latino, la Fisica e la Filosofia, roba da sorci verdi … se non fosse stato per un incontro topico per me: l’amicizia con alcuni compagni di classe con i quali cominciavo a vincere la timidezza ereditaria per i libri con la L maiuscola e per il dialogo con i ragazzi ‘ di città ’. E non solo. Con il più avvicinabile tra loro strinsi una particolare confidenza, parlammo di noi e delle cose per noi importanti, e un giorno mi invitò a casa sua per ascoltare della musica. Fu un colpo di fulmine, non per una ragazza in quel caso, ma per la … SAT!

Voci chiare quelle dei trentini, distese, sonore senza essere chiassose, dolci o patetiche al caso; immagini dell’Italia minore ma vera, non più melodramma, ma narrazione del quotidiano universale, casa, patria, amore, dolore, guerra e solitudine, festa e popolana spavalderia, vette e valli profonde, fieni rivoltati sui pendii o posti a seccare nei ponticelli di larice di baite e fienili …. Il popolo diffuso della storia e nella storia, senza uniformi o eroiche soggettive esposizioni se non quelle della ricerca di pace o del riscatto dall’offesa. Un amore forte, immutato tuttora il mio per la SAT, un inchino rispettoso e grato a chi nel 1926 diede vita alla storica edizione per l’Italia neofascista di una coralità e di un racconto musicale liberi dal trionfalismo goffo di un sogno imperiale destinato a colpire proprio quel quotidiano universale.

 

E venne l’incontro forse più travolgente, nel senso della forza della musica in sé, non senza parole ma avvolgente magnificamente, drammaticamente le parole. Anche qui in modo singolare: “ Ne ridemmo quella sera, e a lungo dopo, ma devo alla cara Cesira, per quell’avventurosa soirée, una scoperta per me fondamentale: certo le porpore e gli ori della Fenice, il fascino dell’orchestra, il carisma del suo direttore, ma su tutto, per me nativa, inaccessa fin lì, l’armonia michelangiolesca, intimamente biblica della Messa da Requiem di Wolfgang Amadeus. Strategico il senso che ebbe per me quell’audizione, il portale della buona musica che mi spalancò, lo strumento interpretativo regalatomi per la fondamentale ricerca del metafisico che distingue l’umano dall’animale, la scala ascendente del ‘Lacrimosa dies illa’, nelle quindici note scagliate a imprimere nel cuore e nella coscienza il vortice emozionale delle creature interpellate per l’ultimo giudizio, la paura dell’abisso e la speranza di cielo, unitamente, una trionfale spettacolarità, horribilis potrei dire con antica corrispondenza di parola e sentimento, sublime nella musica senza limite, geniale, di Mozart”(0).

Nella mia non eccelsa cultura musicale quella serata e quel miracolo di creatività e forza, sconvolgente e gentile insieme, rimangono cunei inamovibili della commozione vera, talvolta incontrollabile, per le bellezze irresistibili della grande coralità.

 

E ancora popolo, protagonista e non più spettatore se non di se stesso, libero da spartiti o logiche astratte che non corrispondano al canto di sè, di chi ci fu prima, degli antenati, della storia profonda, anche oscura se si vuole, come è oscura la forza propositiva degli umili, quante volte accantonata nel pozzo dell’umiltà, dell’inchino, della mansuetudine, del pudore, ma capace di esporre, gridare con il canto libero e comunitario la propria identità e sintassi divergente, robusta, schietta, affrancata dalle altrui convenzioni … “ Pochi giorni ancora, e la campagna scivolava nell’inverno profondo, giorni brevi, notti  che rodevano ingorde le prime ore della sera, un trascorrere lento e meglio sopportabile una volta assestati  fienili e granai, aggiustati  e riposti  attrezzi e strutture, garantiti  foraggi e stoppie al rimasticare delle vacche e alle loro lettiere. Ma un ultimo bagliore, pagana spensieratezza e mistico presagio, punteggiava le campagne bigie e fredde di nebbia opaca, fuoco di stoppie accatastate a campanile, di fascine leggere imbottite di petardi, bagnate sotto di gasolio che ne sortisse un sicuro incendio, di stracci e cartacce, e in alto, un po’ timoniere sbrindellato di nave scossa dalla tempesta, un po’ allucinato istrione di commedie campestri, la sagoma e il totem della rigenerazione, della prefigurazione della nuova feconda creatura,  della promessa ferace di futuro, del domani più  felice, generoso: la pìroea, pàroea, il grande rogo della vècia.

Cantavano tutti , i bimbi sulle spalle di papà, gli occhi dritti  nel fuoco:

Adesso cantémo un fato grando davér, adesso brusémo à vècia, piantada sul pavinèr, brusémo ‘e cane che gèra sui campi, démoghe fògo al ciel e auguri a tuti  quanti ! A raméngo à fame, basta tégnar vòda à pansa, tuta sta sènare ne portarà abondansa, tuti  sti  vìsi e sti  nàsi pieni de sgiànsi de fògo ne dà à convinsion che l’ano nòvo sia bon cogo. Avanti  col fògo aeóra, avanti  coe fiame, femo festa tuti  quanti , co à poénta e col saeàme!

E non c’era ritualità che limitasse l’eccitazione collettiva, in quell’occasione, una delle poche, libera di esprimere gioia e scanzonati  richiami, coralità massiccia e disinibita, anche rifrazione intima e pubblica insieme di un fremito psicologico e culturale che metteva in relazione quel popolo rurale con la filosofia e la percezione indistinta dell’appartenenza cosmica, nel ritmo profondo, e inconoscibile per lo più, di tutto quanto sulla terra, e per chi ne abita per pochi attimi la vicenda storica, nasce e poi vive e infine muore. Poi, forse, rinasce, altro altrimenti  altrove…

Anzi, proprio come nelle antiche rappresentazioni processionali o nella tragedia regalataci dal genio letterario ellenico, la materialità del popolo ‘istante’, seppure nell’abito domesticissimo del dialetto locale, prendeva forma e struttura di responsorio paganeggiante e canone liturgico popolare, osando intravedere e presagire, accanto al presente concesso, un pertugio di futuro, il più favorevole possibile, velato (per pudore e attitudine sperimentata alla cultura del limite ) nell’ingenuità di doppisensi verbali e allusivi aforismi ”(1).

“ D’altro lato, i cori esercitarono un ruolo fondamentale nella conservazione della tradizione corrente, comunicata mediante l’oralità del canto, e attraverso la danza e la melodia, rievocando di continuo, e per giunta in modo seduttivo e coinvolgente, le norme di comportamento e la tipizzazione dei costumi di vita. Essi rappresentavano il nucleo del dramma, non un elemento marginale di esso. Il canto, poi, permetteva una comunicazione forte dei protagonisti tra loro, ma anche con le divinità che si festeggiavano. Pensiamo che i primi poeti lirici come Archiloco, Alceo e Saffo nel canto e con il canto, esprimessero essi stessi la loro poesia. Senz’altro rivestiva anche una funzione educatrice, poiché i giovani erano educati, sin dall’infanzia, alla ginnastica e alla musica, così come alla partecipazione a varie festività religiose ”(2).

Meditate gente, meditate ( rivolto a chi non lo fa )….

 

1 Da una pubblicazione dell’autore.

2 Dalla presentazione di Gabriella Cinti al suo “ Il canto di Saffo. Musicalità e pensiero mitico dei lirici greci: la coralità ellenica ”, Moretti e Vitali Editrice, 2017.