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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Gennaio 2020 - Anno 22 - N.1 (82)

 

 

I settant’anni del ‘Marmolada’:

bell’età, anche di molti tra noi

di Paolo Pietrobon

 

 “ La Scuola Grande San Giovanni Evangelista, a Venezia, è un complesso monumentale con illustri esempi di arte e architettura del Gotico, Rinascimento e Barocco veneziano, ad opera del Codussi, Lombardo, Massari, Morlaiter, Palma il Giovane, Tintoretto, Longhi ” …

Apri internet e dell’edificio hai una presentazione che ti inchioda sullo strapotere della vicenda architettonica e pittorica nella nostra città: varchi l’ingresso, sali lo scalone di Codussi, entri nel salone al primo piano e ti prende una ‘ vertigine contemplativa ’, tanta è l’imponenza e l’opulenza decorativa dell’insieme. Spesso agli amici che mi chiedono quale sia il senso del cantare in un coro, a Venezia nel ‘Marmolada’, prima di articolare motivazioni ed esperienze personali spiego che, qui, dare o assistere a un concerto vuol dire essere parte fisica e intellettuale di scenografie e contesti di assoluta bellezza, non meno di così.

L’ho pensato anche lo scorso 8 dicembre, da spettatore ora, per la celebrazione dei settant’anni del ‘Marmolada’: pubblico delle grandi occasioni, assistenze garbate agli ingressi e in sala, coristi qua e là a ritrovare e intrattenere amici ed estimatori, tensione e consapevolezza negli ‘attori’ dell’evento, a cominciare dal bravo maestro Favret, giunto con i suoi coristi all’impegnativo appuntamento con innegabile, e inevitabile, preoccupazione, prevista la compresenza al cantato di un quartetto d’archi del Benedetto Marcello, avvicinati con la collaborazione di Monica, musicista essa pure, figlia di Lucio Finco, maestro storico del coro, e presente assieme al fratello Federico.

Insomma la conferma di un’ottima organizzazione, della capacità dell’associazione-gruppo ‘Marmolada’ ( al di là del dato anagrafico, che peraltro ‘ affligge ’ pure noi affezionati …) di offrirsi quale soggetto dignitoso e tenace della vita culturale della città, della convinzione maturata in lunghi anni di un lavoro sulle culture popolari, purché – e qui lo stile ‘Marmolada’ – con sobrietà e qualità del prodotto ricercato e riproposto, con armonia e delicatezza dell’approccio tecnico-musicale, fuori da certo folklore auto confermativo e, alla fin fine, commerciale. Il tutto costituito e contestuale a una presenza d’eccezione per tale cultura e per la Venezia corale: Bepi De Marzi, ‘monumento e giacimento’ della coralità d’ispirazione popolare, amico da sempre del ‘Marmolada’, non formalmente amico.

Se non che, ti saresti aspettato di vederlo annunciato al ‘suo’ pubblico al levar di sipario, posizione centrale nell’ossatura spettacolare, anche per il ruolo propostogli – e affettuosamente accettato – di cucitore competente e fascinoso della trama concertistica. Ruolo per altro atteso con vera emozione dai presenti, per la facondia nota e misurata del suo dire, dell’enfatizzare ma senza barocchismi inappropriati le movenze poetiche celate in voce e strumenti, dell’inappuntabile – ancorché scomodo – riferirsi a segmenti e paradossi dell’attualità sociale e politica, del parlare per poesia, della parola, dell’immagine volta per volta risuscitata da suggestioni condivise, del gesto, sempre e tanto più autorevole quanto più elargito con evidente modestia del ‘sè personaggio’ e con il rispetto offerto agli altri personaggi, e persone, di quel mondo.

E invece, eccolo da subito – perciò non immediatamente riconoscibile – a trafficare pure lui tra cavi e microfoni, a condividere dettagli della situazione con coristi e responsabili del caso, a corrispondere con brevi sorrisi a saluti che da tutta la sala un po’ gli arrivano … e poi a starsene seduto a un angolo della scena, tranquillo, forse pensieroso, o forse avvezzo da chissà quanto tempo a quelle performances (ma lui subito mi correggerebbe con  prestazioni, “ santo dio, perché mai rinunciare alla nostra bella lingua?”).

Ho avuto la possibilità di avvicinare e conoscere la persona Bepi anche al di fuori dell’attività corale – pur non potendo vantare un’amicizia profonda quale poté essere con Lucio, o altri dell’ambiente corale veneziano -, ho voluto leggere i suoi libri, scambiare talvolta pensieri e stati d’animo con lui – peraltro sempre disponibile e schietto, com’è nel suo stile – e ho per lui oltre che ammirazione dell’affetto. Così, appena l’ho intravisto seduto e libero da altre attenzioni, ho voluto andarlo a salutare. Subito, con amabilità, mi fa avvicinare: “ciao caro, siediti un attimo, ho bisogno di parlarti”, e torna sul suo progetto, ma meglio si direbbe desiderio’ di vedere riuniti d’estate, a Fusine di Zoldo, i cori che ‘ cantano la montagna ’, tra i quali – egli insiste da tempo – dovrebbe esserci il Coro Marmolada, “ perché – ne parlerà con enfasi anche durante il concerto – a cantare la montagna fu dapprima la città, il coro di città, aggiornando la sua tradizione liturgica o operistica, e il ‘Marmolada questo rappresenta molto bene ”. E mi chiede di portare nel coro tale progetto, mi indica a chi far riferimento lassù per gli aspetti organizzativi, insiste sulla non formalità dell’appuntamento, da vivere in leggerezza e libertà – “ anche non tutto il coro, se ci fossero problemi di ferie o altro ” -, con convinzione, appassionatamente.

L’ho salutato come si saluta una persona cara e, se leggerà le mie righe, lo ringrazio per l’attenzione dedicatami.

 

Consoni comunque al personaggio anche l’abbigliamento e l’atteggiamento: niente abiti “ per l’occasione ”, né moine o teatralismi stucchevoli, niente verbosità roboanti o cantilene nostalgiche, niente sguardo eminente scagliato a centrare il fuoco di obiettivi e istantanee ( pur digitali ) – si direbbe perforare lo schermo, con altro idiotismo [ vedi dizionario ‘Sabatini-Coletti’, primo significato … o quello che viene a mente per primo ] cui mamma TV ci mette alla prova … piuttosto un incedere contenuto, lui stesso riassorbito dalla musica e dalla poesia, anche le sue stesse, un rincorrere e risvegliare magie e supposizioni nascoste nelle note e nei versi depositati sulla carta, restituendo all’immaginario e ai ricordi dei presenti le tinte morbide o morbinose dei tramonti montani, delle mattine terse degli alpeggi, dei corteggiamenti tenaci, del flusso cordiale e confortevole dei giorni di festa nelle borgate di città, nelle contrade dei grandi silenzi e delle misteriose profondità.

Il pubblico gradiva tutto ciò, confermando al maestro Bepi ammirazione e gratitudine, non senza qualche commozione che io stesso ho avvertito attorno. E non senza l’applauso convinto agli intermezzi del quartetto d’archi, varchi ricavati tra le ‘cante virili’ con uno sfizzioso ammiccamento a svolazzi di musica strumentale che, prevalentemente, avresti potuto ascoltare nel teatro d’opera o sinfonico: ammiccamento cui Bepi intelligentemente – anche quale omaggio a Venezia e ai suoi cantori – aveva fatto riferimento richiamando con azzeccate pennellate, di apparizioni e fuggevoli persistenze, fino alla sparizione umile e pressoché deserta del grande artista, l’avventura esistenziale e la musica celestiale del “ prete rosso”, quel Vivaldi le cui fughe irraggiungibili di archi e fiati in danze inesauste hanno costellato di magia e infinito tanti di noi.

Tutto bello, tutto convincente. Ora basterà aspettare l’ottantesimo genetliaco…