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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2022 - Anno 24 - N.3 (90)

 

 

Perché cantare in un coro

 

di Rolando Basso

 

 

Sulla pagina di accesso della scuola di musica milanese Mondomusica si trova questo testo:

 

Perché cantare in un coro

Lezioni di canto o lezioni in coro?

Perché molte scuole di musica inseriscono nei loro programmi didattici le lezioni di canto corale? E spesso sono gratuite?

Cantare in un coro ha un'importanza molto profonda, significa condividere le proprie vibrazioni, condividere i propri stati d'animo e aprirsi non solo all'insegnante ma anche agli altri coristi.

Cantare in un coro è una forma di nutrimento. Ci si nutre delle energie altrui, ci si nutre del respiro altrui. È uno scambio, è qualcosa che riempie l'anima, il corpo.

Cantare in un coro non è il semplice cantare.

Il grande maestro Claudio Abbado pensava al coro come ad una grande orchestra, ma con un aspetto umano molto più profondo:

"Il canto è l'espressione musicale più spontanea e naturale e il coro è la forma più immediata del fare musica insieme. In un coro ogni persona è sempre concentrata sulla relazione della propria voce con le altre. L'ascolto dell'altro è quindi alla base del canto corale e in generale del fare musica insieme. Imparare a cantare insieme significa imparare ad ascoltarsi l'un l'altro.

Il coro quindi, come l'orchestra, è l'espressione più valida di ciò che sta alla base della società: la conoscenza e il rispetto del prossimo, attraverso l'ascolto reciproco e la generosità nel mettere le proprie risorse migliori a servizio degli altri"

Claudio Abbado

 

Leggendo quelle righe ho rivissuto, condensata, la mia più che trentennale esperienza di corista, prima nella Corale parrocchiale e poi, anche, nel Coro Marmolada.

Ho già scritto in passato che prima di arrivare, quasi per caso, nel mondo corale il mio rapporto con la musica fosse praticamente inesistente se non come semplice, sommesso, accompagnamento mentre svolgevo altre attività per me più importanti o come riempitivo del silenzio notturno che, altrimenti mi avrebbe accompagnato nello studio.

La sera che accompagnai mia moglie alla sua prima prova nella Corale parrocchiale mi sedetti in disparte predisponendomi, con una rivista, all’attesa per il successivo rientro a casa.

Con un perentorio “Cossa ti fa’ sentà la?” il Parroco che era anche il fondatore e maestro della corale mi invitò (obbligò) ad unirmi al gruppo e, nonostante la mia ritrosia, fui costretto ad accettare finendo all’interno del gruppo dei bassi.

Dopo le presentazioni e i saluti di rito, nel corso dei quali ebbi modo di notare la diversità del timbro delle singole voci del gruppo, mi fu consigliato di ascoltare per tutta la prova.

Già con il primo canto mi accorsi che le diversità notate in precedenza erano sparite sostituite da una fusione che mi lasciò letteralmente incantato; incanto che crebbe via via che la prova proseguiva.

Decisi di far parte della Corale e, sempre ascoltando, con il tempo imparai sia la parte del basso dei brani del repertorio che, soprattutto, a modulare la mia voce con quelle del gruppo nella ricerca di quella fusione che tanto mi aveva incantato.

Qualche anno più tardi, al tradizionale concerto di San Giuseppe della parrocchia, fu invitato il coro Marmolada

In un precedente articolo ho già descritto l’impatto che ne ebbi e che mi indusse a recarmi, assieme a tre amici del coro parrocchiale, presso la sala prove del Marmolada a chiedere di poter diventare un loro corista.

Quella sera arrivammo che le prove erano già iniziate e quindi ci sedemmo ad ascoltare; pur essendo prove a me sembrava di continuare ad assistere al concerto.

Quando il coro fece intervallo il maestro, Lucio Finco, si avvicinò e dopo qualche convenevole ci chiese in quale voce cantavamo nel coro parrocchiale. Io risposi nei bassi. Eppure mi ritrovai tra i tenori secondi con la disposizione tassativa di ascoltare i coristi intorno a me fino a quando non avessi imparato i canti del repertorio e, successivamente, iniziare a cantare sottovoce, sempre ascoltando i compagni, aumentando gradatamente il volume per allineare il mio cantare al loro. Inoltre avrei dovuto ascoltare per imparare il respiro a turno per mantenere continuo il canto.

E il medesimo invito ad ascoltare viene tutt’ora fatto ai nuovi allievi.

Furono mesi di ascolto! Spesso ad occhi chiusi per aumentare la percezione del canto del mio gruppo rispetto alle altre voci e poi, via via, anche quello delle altre voci.

A distanza di oltre trent’anni ancora oggi, durante le prove, sia per imparare un nuovo canto che per affinare i canti in repertorio, mi è ormai automatico l’ascolto, ancora spesso ad occhi chiusi, dei coristi del mio gruppo e delle altre voci.

È stato particolarmente pesante, alla ripresa delle prove in presenza dopo la lunga sospensione a causa del Covid, riuscire a cantare con il distanziamento; ho avuto la percezione di essere un cantante solista e non un corista.