MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2013 . Anno 15 n.4 (58)                  

 
 

Le villotte veneziane o "vilote"

 

Premessa

 

Abbiamo trattato, nei due precedenti numeri di "Marmoléda", di canti veneziani (clicca qui), in particolare poi su "La cantilena dei battipalo" (clicca qui), sulla quale ci ritorneremo, e su "La Riva de Biasio" (clicca qui), ma anche su "La villotta" (clicca qui) specialmente quella friulana. Continuiamo, allora, su questa linea col presentarvi cosa diceva Angelo Dal Medico, autore di una raccolta intitolata "Canti del popolo veneziano", edita a Venezia nel 1848 e stampata presso "Andrea Santini e Figlio Tipografi Librai" in Venezia - Mercerie S. Giuliano N. 715.

Qui sotto, quindi, l'introduzione dell'autore. 

 

 

 

Cenni sulle vilote

da "Canti del popolo veneziano" di Angelo Dal Medico"

Venezia - MDCCCXLVIII

 

Da principio saranno balzate all'improvviso dall'anima commossa, e le più notabili, raccolte dalla memoria fedele dei circostanti. Sino a cinquant'anni fa gli amanti le cantavano in serenate sotto le finestre, accompagnandole col suono del colascione, del mandolino o della chitarra, o di tutti questi istrumenti insieme. E l'amante non pratico del canto faceva eseguire la serenata da un qualche amico.

Avvene però molte di donne; e queste non erano già (almeno negli ultimi tempi) risposte all'amoroso dalla finestra, ma sì cantate con intenzione di giorno in casa, o a sedere alla porta, fingendo di farlo a proprio diletto mentre quegli passava. Il tempo spense i buoni poeti  popolari  e le poetesse; mandò in disuso le serenate; e le vilote che ancora sopravivono (sic)  vengono ora cantate a semplice  sollazzo dalle nostre donne del  popolo, massime nelle corti e ne' campieli (piccole piazze tra le case) ove vivono in più comunanza e libertà. Le accompagnano al suono del cembalo a sonagli, intessendovi anco un ballo, che al pari del canto e del suono vilota si chiama. Per solito la più attempata donna della brigata è quella che canta le vilote e dà nel cembalo, mentre le altre più giovani ballano.  Quand' e' non l'hanno del proprio, pigliano il cembalo a nolo, e (anco questi particolari giova raccogliere) pagano due o tre soldi all'ora. E se nessuna delle donne vuole o sa suonare, pagano anco la suonatrice: e la spesa va ripartita tra le ballerine. Ignoti sono gli autori di questi canti; e ignoto del pari il tempo  della loro origine e quello in cui la musa popolare si tacque. Solo si scorge che a renderli veramente nazionali, tutti nello stesso metro e sulla stessa aria facile li componevano.

E come all'unità di pensiero e di modi dobbiamo in gran parte la loro conservazione, ognuno l'intende. Alcuni toccano cose ed avvenimenti che li fanno credere nati tra il XVI e il XVIII secolo. Il Goldoni reca uno degli intermezzi di questi canti e due poesie ch'io tengo essere due vilote.  Altrove anche le nomina. La lingua non è quasi punto antiquata perché il popolo secondo l'uso vivente le rinnovella; e non molto corrotta perché la musa popolare si tace ormai.

In queste canzoncine l'amore di donna tiene il campo, e non lo cede che rade volte a quello di patria, e più spesso all'antico spirito di parte o al motteggio. Alcune me ne furono dettate di sudicie (sic) o di equivoche; ma queste, com'era di dovere, soppressi.

Le vilote sono di quattro versi, tre de' quali, in parecchie rimano insieme; l'ultimo verso è sovente ripetizione del primo: piuttosto che stiracchiare il soggetto, ripetono. In altre, l'intero concetto stà (sic) nell'ultimo verso. Ce n'è di sei, ma i due ultimi son come giunta comandata dall'affetto; in essi il senso è per lo più rimaneggiato in altra rima e vi aggiunge o forza o chiarezza. Così ne' canti toscani. Le poche poi d'otto versi diconsi doppie; alcune formano ottava, altre nò (sic).

Ve n'ha pure due o tre di lunghe e narrative. In quasi tutte c'è poi qualche rima per assonanza, distintivo de' canti del popolo. Finiti i quattro versi della vilota  cantano un intermezzo, sempre variato però, ch'e' chiamano Nio cioè nido, la cui musica è ancor più gaja (sic) di quella della vilota. Questo è il più bel genere de' canti del popolo veneziano; ed è più ch'altri dalle donne tuttavia amato e cantato.

Nell'estremo de' sestieri  di Castello e di Cannaregio, lontani dal centro della città che sempre più imbastardisce, come in ultimo riparo in maggior copia e di più leggiadre se ne ritrovano di siffatte canzoni. E dalle anticamente nemiche fazioni di queste due contrade, Castellane le une, e Nicolotte le altre si appellano, i soggetti non variano gran fatto, ma vestono differenti colori dai diversi modi di vivere de' loro abitanti. Troverai in quelle di Castello, abitato il più da marinaj (sic), frequentissime le immagini di mare; dove quelle di Cannaregio abbondano di accenni alla terra o alla laguna dalle quali raro e' si scostano. Da ciò viene che nelle prime, e in quelle di donna in ispecie, è più mesto e traboccante l'affetto, ispirate come sono dall'idea del pericolo che corre la vita de' loro più cari al mare affidata.

Ed anche la musica senza variar di note, a meglio esprimere il concetto del cuore, è più prolungata e impressa di certa malinconia che le altre non hanno.