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Marmoléda

MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Marzo 2016 - Anno 18 -n.1 (67)

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TONI  CHÉLE

di Paolo Pietrobon

 

 

PREMESSA

 

Nello scorso numero di Ottobre abbiamo raccontato la commemorazione, al Rifugio Galassi, alla corte del  principe Antèlo, dell'amico ed ex-corista del Marmolada Pier Luigi Visentin ( Gigio ) e del suo compagno di cordata Malgarotto. Gigio e 'Malga' erano deceduti sul Tilicho, una cima himalayana, nel 1992, erano molto legati al CAI di Mestre e a quel rifugio, ed erano amatissimi  da tutti gli appassionati di quelle montagne. Nella Val d'Otèn, che accompagna alle falde della grande montagna chi proviene da Calalzo di Cadore, molti di noi, credo, ricordano una presenza storica e popolarissima, contornata di originalità, quella di un figlio di tanta montagna, Antonio Vascellari, detto Chèle, proprietario della Capanna degli Alpini, ultimo avamposto prima della salita vera, uomo che portava in sè i segni e i contorni fascinosi di un mondo antico, intelligente e forte.

Per tutti costoro, e per chi non ne avesse conoscenza o ricordo, proponiamo il racconto di quell'uomo e della sua storia, con l'augurio di avvertirne la presenza immateriale ma netta alla prossima escursione in quel sito. Buon viaggio....

 

 

Antonio Vascellari muore nella sua Calalzo di Cadore quando volge al termine l’anno 1983, a ottantuno anni. Fino al Luglio di quell’anno si aggira fra i turisti e gli ospiti della “Capanna degli Alpini”, il suo rifugio, costruito a vive mani nel 1957, al piede di un costone di fitte abetaie, d’un verde denso e bruno, oltre il quale barancéti e ghiaie pompose si stagliano a reggere l’abbandono e la quiete apparente della “grande rupe”, l’Antelào, primo tra gli imponenti castelli dolomitici a competere in maestosità con la “regina”, Marmolada, e, in una patetica leggenda, principe abbattuto e pietrificato dal sortilegio che aveva osato sfidare, alzando su di lei lo sguardo appassionato e dedicandole il proprio cuore…

I vecchi sanno che leggende e miti nascondono la linfa profonda e le emozioni più laceranti del sentimento e degli idoli delle umane creature, e Toni, che pure non aveva letto granché di queste cose, in un giorno lontano, allorché salivo da gestore al Rifugio Galassi portando a spalla un carico di generi alimentari, e di ciò ai suoi occhi mi mostravo assai fiero, mi indicò verso occidente “la montagna”, e me ne rivelò forme e giaciture che realizzavano la leggenda, cosicché nella bastionata delle Laste era scolpito il corpo dell’eroe; ed il pilone, poderoso, precipite dalla cupola terminale sul Ghiacciaio Inferiore ne rappresentava il braccio; ed una gamba, ripiegata sul ventre, ben si attagliava al nodo contorto della Bàla, mentre il capo, inesorabilmente confitto sulle nude ghiaie, con tutto realismo si individuava nell’avancorpo del Lastròn di Pian dei arbòi, affacciato sulla Forcella del Ghiacciaio. Non si dava pena dell’aderenza alla realtà di quanto veniva favoleggiando, Antonio: per lui la montagna un’anima ce l’aveva, i prìncipi solitari ed infelici erano da sempre esistiti, e non era proprio così raro che l’amore rifiutato, o negato, rubasse al cuore la vita…

Ed è, quel Rifugio, quasi un obelisco, una sorta di Pietra di Rosetta capace di trasmettere e sussurrare alle centinaia di persone che lì salgono per una salutare colazione o con obiettivi alpinistici storie ed aneddoti: che poi sono le testimonianze, ora nitide ora velate di rimpianto, di una vicenda minore ma intensa, e di un tempo in cui uomo e montagna sono stati protagonisti di eventi straordinari, oggi affidati a stinte fotografie e ai racconti a mezza voce di vecchi montanari, nel fervore dei tramonti d’autunno, quando il sole bagna di gocce ramate ogni ruga, ed ogni ricordo.

Turisti della domenica, escursionisti ed alpinisti risalgono la Val d’Otèn, oltre il paese di Calalzo, con emozione crescente, degli occhi e del cuore, all’apparire del Gruppo delle Marmarole, castello fatato e barriera incombente che protegge da Nord la contrada alpina, dal lato opposto adagiata sulle rive del Lago di Centro Cadore, varco cristallino tra le forme della storia e i vapori fuggevoli della magìa, del divino…le imprevedibili ed amabili Anguàne, ma anche, prima della storia, l’accorrere di uomini e donne alle acque salvatrici di Làgole e il deporvi, ad auspicio rituale o per grazia ricevuta, statuette e formelle allusive alla fecondità, o agli squarci e alle deformità inconoscibilmente risanate…

E tutti parlano tra loro e lasciano “artisticamente incise” nel “Libro del Rifugio” le mète e le suggestioni della nuova avventura: la Cascata delle Pile, i Rifugi superiori, la Ferrata dei Cadorini, la Cima dell’Antelào, ma attendono il momento in cui, a spasso con l’inseparabile mucca o impegnato in un fitto narrare tra gli ospiti della Capanna, potranno scorgere lui appunto, l’uomo di quella montagna, di quel tenero e verdissimo prato, dei tanti episodi che hanno ravvivato e ravviveranno le serate invernali, Toni Chèle.

Già, Antonio Chèle, dal nome della nonna, Rachele. Difficile dire se il matronimico sia stato nelle contrade cadorine, e dolomitiche, il segno di un ruolo sociale di riferimento riconosciuto alle donne tra ottocento e novecento. Posso immaginare, nei nomi di donna ereditati, l’ammirazione, spesso il “compatimento”, per singole e per lo più drammatiche esperienze illuminate dal coraggio e dall’abnegazione di donne madri-povere di tanti figli, o vedove di guerra, o uniche architravi di famiglie decapitate dall’emigrazione. E Dio sa se il Bellunese, prima dell’avvento della lavorazione dell’occhiale e tra due guerre disastrose con intermezzo di un fascismo quanto meno diffidente nei confronti dei territori di confine, ha avuto a che fare con povertà e marginalità!

 

                                         

La rotta militare di Caporetto nell’Ottobre del 1917 fu per Antonio, quindicenne ma già impegnato nel lavoro di famiglia, paura grande, inaspettata, ed un lampo abbacinante, di stordimento e d’angoscia, come avviene, di notte, se la saetta, livida e mostruosa nei suoi tentacoli, ti desta di soprassalto, toglie il respiro e senso del tempo, ti lascia tramortito, come sacco sterile e vuoto.

Ottobre, l’affaccendarsi crescente, giorno dopo giorno, nelle case, attorno a stalle e fienili; il sentore palpabile, nel brusìo dei crocchi la mattina della domenica, sul Sagrato, di ritrovate intimità familiari, intorno ai Larìn; le luminescenze ambrate, i cromatismi di velluto su ogni costone accarezzato dal sole, sul limitare degli aghifogli…Ottobre di greggi riunite per il rientro agli ovili, grosse di generosa lana; di pascoli restituiti al silenzio delle brine notturne; di rigonfie lettiere nelle stalle per l’inverno che incalza; di trecce di granturco dorato, foièle graziosamente rivoltate all’indietro, scintillanti sui poggioli schierati contro il blu del cielo autunnale e il giallo iridescente di larici scapigliati…

All’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia aveva inseguito ed applaudito i contingenti di soldati, riuniti in tutte le Pievi, penne lucenti sul cappello d’alpino, fanfare instancabili, benedizioni del parroco, baci e lacrime trattenute fino all’ultimo di mogli e madri, occhi ignari ed eccitati nei più piccoli…gli avevano decantato le “sorti gloriose” che attendevano gli umili montanari oltre le creste riconquistate alla patria. Ma un po’ tutti, nel fervore delle operazioni di “radunata e schieramento” sulle linee del fronte, per la rarità assoluta di informazioni erano stati travolti da eccitazione e stupore davanti al gran movimento e alla presenza inusuale di ufficiali in uniforme, automobili rombanti e lunghe teorie di autocarri e muli, voci e richiami perentori, pose per fotografie storiche e colonne di uomini affardellati, col sorriso sulle labbra, tutto sommato convinti che quello era il loro posto e il loro dovere, tanto quanto il provvedere, da civili, al bosco e alle stalle, semmai con qualche turbamento, in pubblica sede virilmente contenuto e provocato dal fatto di aver lasciate sole le loro donne, e con loro i piccoli, i vecchi…

Toni aveva percepito nettamente tante rassicuranti ed autorevoli novità: che il Cadore era protetto da formidabili ed inaccessibili forti muniti di moderni cannoni…che la IVْ armata era schierata a baluardo della sua terra…che a Pieve di Cadore, addirittura, era stato costituito il Comando della Fortezza Cadore-Maé. Ed egli stesso aveva potuto assistere al passaggio e alla sosta di nutriti contingenti di soldati, tra il fumo dei gas liberati da autocarri surriscaldati e l’afrore umido e dolciastro dello strame misto a feci di cui i forti muli striavano ogni via, visto che tutto il Cadore in quei giorni era affollato di truppe e carriaggi: i Comandi d’Artiglieria e Genio a Pieve, truppe di riserva parziale a Domegge e Vallesella, ad Auronzo, e che proprio dalla sua Calalzo veniva fatto partire verso la Val d’Ansièi un “tramvai” adibito al transito di rifornimenti ed attrezzature, allineato alla strada maestra.

Come non pensare che tutto sarebbe andato per il meglio? Che padri e fratelli sarebbero tornati presto, e salvi? Che una guerra non avrebbe fatto peggio di un brutto inverno, lasciando presto il posto alla nuova stagione, più mite e feconda?

Ora, capiva che tutto poteva succedere, che ognuno doveva proteggersi: gli Austriaci, spinti dalla prorompente percezione di una vittoria definitiva a portata di mano, inondavano le pianure orientali, non senza garantirsi alle spalle da sacche di resistenza attiva, e per questo rastrellavano ovunque i maschi in età da lavoro o  possibili ostacoli all’ondata asburgica. Accadde anche a Toni Chèle: rinchiuso in un campo di lavoro a Cimabanche, immediatamente concepì nella mente e nelle carni il progetto di autodifesa. Aveva temuto la chiamata alle armi per il suo paese -è duro immaginare una morte possibile a 15 anni!- e adesso non perse tempo. Riuscì a scappare, una volta, poi ancora…e fortunatamente dopo qualche mese quella guerra  finì!

 

 

Antonio appartiene ad una piccola storia, borghi accovacciati in conche solitarie, aggrappati a declivi piantati sui fianchi dei monti, spostamenti -quasi mai viaggi- misurati in ore di marcia o a cavallo di mulo, nascita matrimonio e morte celati in solerti registri parrocchiali senza clamore, dei Municipi a noi noti nemmeno l’ombra…e nella piccola storia di Antonio, dimenticata presto la guerra, entrano e diventano radici gli Alpini, i muli, le grandi traversate tra alpeggi e forcelle, boschi e ghiaie secolari. Su tutto, le grandi altezze, le vedute sconfinate, l’aria fredda e sottile.

La sintesi, emotiva e pratica, di tante esigenze ed aspettative non gli riesce complicata: durante il servizio di leva, con gli Alpini, scopre l’ammirazione per la forza e la dignità -anche il mito- del soldato di montagna; muli e cavalli in casa Vascellari ci sono da sempre…e Toni Chèle decide ben presto che quell’atmosfera e quegli “amici” sono ideali per organizzarvi un’importante attività, la sua attività, che non sia solamente legata alla tradizionale ruralità. Tutta una vita, trasporti di legname a valle, di laterizi e derrate da paese a paese, di rifornimenti ai Rifugi, interventi dovunque la forza dell’uomo non basta e, soprattutto, per lui con totale piacere, il supporto logistico ai campi dei militari impegnati in esercitazioni, tra rocce e nevai, su verdi praterie o impervi ghiaioni. E di qui i lunghi colloqui con ufficiali e soldati, lo scambio di informazioni e resoconti, grandi esperienze distribuite a valle tra gli amici e, nel suo Rifugio, a centinaia di visitatori estasiati e divertiti.

 

 

Così, fotografie e biglietti di saluto coprono come manifesti di una campagna elettorale i muri della “Capanna degli Alpini”. Vi si leggono fatiche ed entusiasmi, cento e cento amicizie, gli elementi di una condizione quasi epica e sentimentale, quella degli abitatori della montagna.

E, in alcuni, la storia del nostro protagonista: come alla Trattoria “Al Ponte”, che chiude trasversalmente la piazza di Calalzo verso la montagna, con Toni, il suo cavallo ed un amico sul ballatoio d’ingresso a festeggiare l’ennesima riuscita peregrinazione, in testa il cappello di feltro, quello degli Alpini, portato per tutta la vita, in mano un bicchiere di vino…e sul viso, vagamente segaligno, sprigionante ironia e furbizia, occhi puntuti e luminosi, mento sempre alzato a compiacimento e gratificazione per il successo di “pubbliche relazioni”, i segni e le linee di un tempo in cui l’essere e l’andare, il fare e il raccontare hanno inciso e scavato, quasi a fissare i punti essenziali di un quadro complesso e realistico, animato e solenne, soprattutto coerente, prevedibile, leggibile sempre: il quadro di un’intera esistenza e di un’intera natura, di un’armonia che corre oltre i limiti del singolo vivere, alla rincorsa di un equilibrio profondo e antico, quello dell’ “uomo di montagna”. O su un erto tratturo, a cavalcioni sul piccolo carro a due stanghe, le mani tese ad arrotolare la sigaretta, l’imponente cavallo in paziente e complice attesa…non solitudine, come potrebbe sembrare, ma la tranquillità e l’autosufficienza di chi conosce ed ascolta il respiro, l’umore, la pace del suo ambiente, di chi  “è dove vuole essere”, quindi sta bene.

 

             “  Anno  1930

                 68ْ  Compagnia  “Manera”

                 Batt.ne  “Cadore”

                 Marcia della penna alla Cima dell’Antelào

                 Con il fratello di Antonio, Jaco

                 Firmato Sottotenente medico Giovanni Angelini  ”

La foto è di piccolo formato, bianco e nero, inquadratura dal basso, pose solenni: l’effetto di fermare il tempo e le emozioni, l’estasi contemplativa e il pulsare dell’eccitazione passano in chi guarda con immediatezza, in piena luce. Ufficiali e soldati salgono le Laste inclinate della montagna, nascoste da neve abbondante. Uno di loro, probabilmente Giacomo (Jaco),abbozza un cenno di saluto con la mano libera dallo sci…e la dedica è per l’amico Toni!

Non sono le foto che appaiono per prime nelle mani di Giannino, figlio di Antonio, quando egli le affida alla curiosità degli ospiti. “Queste sono preziose”, si affretta a spiegare, “se volete potete ricavarne una fotocopia…”.

E’ questa la storia “minore” di Toni Chèle. Egli non ha cercato sulla montagna successi o ardimenti (quanto esibiti dagli alpinisti negli anni trenta!), ma si è accontentato di essere ospitato nelle altitudini e nelle profondità, di riconoscervi al trascorrer delle stagioni l’orma del proprio passaggio, di esserne elemento e parte, e quindi rispettoso ma esaltante compagno. Senza che per questo gli siano mancate esperienze di qualità alpinistica ed avventure, allorché, per fare un esempio, proprio lui  inaugurò l’aerea Ferrata dei Cadorini, che porta alla magnificenza del Ghiacciaio Superiore dell’Antelào, insieme con un Ufficiale dei suoi Alpini, il Maggiore Scarpa.

Oggi, chi ricorda Toni Chèle per averlo conosciuto, o ne sente parlare, entra con facilità, senza alchimìe letterarie, in un percorso umano denso di emozioni e di armonia, ha l’impressione di vivere egli stesso quella fascinosa atmosfera. E ne riporta una sensazione del tutto particolare, quella di appartenere ad un ambiente straordinario; di poterne captare umori e profumi, dimensioni e comportamenti; di essere un po’ meno turista ed un po’ più protagonista, amico; di prevederne evoluzione e condizione e, infine, di potervi individuare, quando ne sia data occasione, un proprio posto tra le creature e le forme che lo compongono; di amarlo per quello che è, non di usarlo per sostituire le frustrazioni di cui la quotidianità “urbana” ci investe. Così sei anche tu il “racconto” di Antonio Chèle, non ti avviliscono limiti di spazio e di tempo, non ti nuoce  il constatare che con lui il tuo presente è separato da un passato che hai amato e non è più…così lo puoi incontrare sul Pian dei arbòi, lui con il mulo mentre il cielo scaraventa in terra scrosci assordanti di pioggia gelata, e fartene accompagnare e vincere quella fredda solitudine…o al guado del torrente Otèn, sopra Praciadelàn, ad animare il lavoro di ricostruzione del ponte distrutto dall’ennesima frana, tutti assieme, montanari muli trattori e noi giovani gestori del Rifugio Galassi, in una irripetibile eccitazione collettiva…e ancora, allorché la disgrazia di un amico ti porterà a risalire di notte, solo, il sentiero e tu, ad ogni svolta stretta tra i mughi che tolgono la luna, non riuscirai a vincere il sentore che quel morto cammini con te, lui ti aspetterà, nella sua Capanna, con un piatto caldo ed un ragionare fitto fitto, perché tu possa continuare a salire come sempre si sale in montagna, lasciando che sia essa a parlare e a ricoprire d’umida brezza la tua angoscia, come fa la neve d’autunno con le tracce dell’ultimo viandante.