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Marmoléda

MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Dicembre 2016 - Anno 18 -n.4 (70)

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Vi racconto un canto: "L'ultima notte"

di Paolo Pietrobon

 

Premessa: Ancora la rivisitazione di un canto che racconta gli alpini, ma con gli accenti – nella canzone e nella sua recensione che qui presentiamo – e le risonanze morali e storiche di un evento e di un’esperienza universali. Notte e guerra, oscurità e maledizione, silenzio e sentimento, preghiera, orrore di un sacrificio imposto ( quasi sempre dagli uomini, in fondo ) e rassegnazione consapevole di un’umanità scagliata dalla storia al pericolo estremo, all’annullamento del proprio diritto alla vita, ad un ‘ tempo buono ’. Non si muore di notte sulle rotte mediterranee dell’esodo millenario, oggi? Non si muore e si uccide, anche per difesa, come tutte le altre volte, in decine di teatri di guerra? E via così, con facile elencazione…

Eppure anche su tutto ciò torna il Natale, tutti i Natali, comunque si sappiano risuscitare nelle contrade del pianeta. Eppure l’umano rincorre in sè la sembianza del grande ‘spirito’, della sperabile armonia civica e civile, di un contesto pacificato e pacifico che, in ogni modo, un po’ giustifichi le fatiche, le sconfitte, le coraggiose avventure di chi tale ‘ natale’ abbia onestamente, intelligentemente preparato, a cominciare da se stesso.

E ancora la magia etica e poetica di Carlo Geminiani e Bepi De Marzi.

 

***

“ … La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la sentono, lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle… ” (Giulio Bedeschi). “ ….Il campanile scocca / le undici lentamente. / La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due? / - Che freddo! Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta! / Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue… / Maria già trascolora, divinamente affranta…. / Il campanile scocca / la mezzanotte santa…” (Guido Gozzano, ‘La notte santa’).  “ ….Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, /e perir dalla terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia…” (Giacomo Leopardi, ‘Canto notturno di un pastore errante dell’Asia’).

Universali, innumerevoli gli accenti con cui abbiamo cantato alla luna, e alla notte, che le fa da abito, impenetrabile e scintillante all’occhieggiare delle stelle, e i messaggi, le emozioni ad essa affidate nel silenzio di tutto attorno, a cominciare dalle mai bastanti notti dedicate da Penelope allo sfacelo della tela diurna per l’angoscia dell’attesa del suo Ulisse, per finire alle notti di Rafael in ‘Per chi suona la campana’, il gitano dei partigiani antifranchisti arrampicato sull’albero per la guardia alla postazione montana, incantato dallo splendore tranquillo di donna luna.

Non diversamente dovette essere, almeno per qualche istante e nonostante il fragore distruttivo imposto dalla circostanza, per i nostri soldati scaraventati e dispersi nella steppa ghiacciata della Russia nel Gennaio del 1943. Fin troppo facile farsene un’idea: il candore tacito della neve, uno spazio infinito, tale da dilatare senza confini le solitudini, le nostalgie insistenti dei tocchi di un campanile natìo, del calore dell’augurio natalizio sulla piazza del paese troppo lontano, della commozione palese per l’avanzarsi sul presepe di pastori e timide pecore, e di quella greppia, pur simbolica, del riparo cercato disperatamente per il piccolo dio che deve nascere: greppia, cuna, grembo, come la più tetra trincea, nel freddo e nel buio, come per Lui, quando l’annegare in quel giaciglio stinto offre l’unica speranza di salvezza. Nel Gennaio, prima dell’ultimo ‘folle’ impeto liberatorio di Nikolajevka (1), ma in tante altre notti, anche dei Natali vissuti laggiù, senza alternativa… E nemmeno per altri uomini, di ogni zolla del pianeta, non soldati, né eroi avventurosi, ma uomini ‘normali’, uomini in viaggio, nel viaggio più comune e più faticoso, altrove greve, di tanti inevitati esistenziali accidenti, qui pure per lo sguardo indagatore di un pastore errante, forse, lui, senza stella che lo guidi.

 

Così mi pare adeguato il tentativo di cogliere, come sempre va fatto, il sottostrato, la profondità dell’invenzione poetica e musicale dell’ennesimo umanissimo bozzetto tracciato da Geminiani e De Marzi attorno alla vicenda limite di quei soldati, in quella loro notte, in quella decisione senza alternative, sfondare domani o perire, per un atto impervio ed oscillante, tra ciò che – poi, sui libri o nei racconti dei superstiti – verrà osannato quale eroismo e altro che, lì e in quelle ultime ore, meglio assomigliò a una disperata illimitata sofferenza da accettare, tanto quanto la violenza necessaria, e residuale in quelle condizioni, per uno spiraglio di salvezza ( “ … Eppure alcuni sono riusciti a salvarsi, certo a un prezzo greve … dopo avere conosciuto i confini infiniti della violenza e della morte …[…]… per una conclusione mostruosa ma che appartiene alla nostra storia…e rende il peso spaventoso della rinuncia e della viltà…” ( Carlo Bo, ‘Centomila gavette di ghiaccio’, Presentazione).

 

Quale viltà? Quella degli scampati all’avventura russa, e degli ordini diramati alle stazioni di arrivo dei sopravvissuti, ove una marcescente ragion di stato consente e pretende si faccia strame di quegli sciagurati eroi di una vicenda patetica e terribile nelle sue conseguenze: “ … “…gli alpini erano scesi, toccavano il suolo con i cenci dei piedi e fissavano la terra con occhiate sospettose...

-         In vettura! Chiudere i vetri dei finestrini! Nessuno esce più, alle stazioni è vietato affacciarsi!

-         Non siamo bestie! Aprite, aprite! – gridavano gli alpini riabbassando i vetri e scuotendo invano le maniglie… - Siamo gli alpini! – gridavano…

-         La popolazione non vi deve vedere: è l’ordine…che alpini o non alpini! Ma vi vedete? – urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; - vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?...” (Giulio Bedeschi, ‘Centomila gavette di ghiaccio’).

 

Così, ora, meglio ci appaga il fluire piano del canto - e l’irrompere forte dei ‘crescendi’ negli attimi concessi alla rassegnazione greve o alla speranza risuscitata del ritorno -, e del suo tessuto, di oculata e struggente armonia:

Era la notte bianca di Natale / ed era l’ultima notte degli alpini; / silenzioso come frullo d’ale / c’era il fuoco grande nei camini. / Nella pianura grande e sconfinata / e lungo il fiume - parea come un lamento - / una nenia triste e desolata  / che piangeva sull’alito del vento. / Cammina cammina /  la casa è lontana / la morte è vicina e c’è una campana/ che suona, che suona:/ Din don, dan... / … Tutto ora tace. A illuminar la neve / neppure s’alza l’ombra di una voce / lo zaino è divenuto un peso greve;/ ora l’arma s’è mutata in croce… / … Lungo le piste sporche e insanguinate / son mille e mille croci degli alpini, / cantate piano, non li disturbate, / ora dormono il sonno dei bambini. / Cammina cammina / la guerra è lontana / la casa è vicina / e c’è una campana / che suona, ma piano: / Din, don, dan...”.

Per non dire del commovente recitato che, in un profondo baritonale, s’accompagna al fluire delle note: “Mormorando, stremata, centomila voci stanche di un coro che si perde fino al cielo, avanzava in lunga fila la marcia dei fantasmi in grigioverde. Non è il sole che illumina gli stanchi gigli di neve sulla terra rossa. Gli alpini vanno come angeli bianchi e ad ogni passo coprono una fossa”.

Il frullo d’ali del fuoco crepitante, nell’isba provvidenziale, messo a bruciare quel che resta dello sciancato carriaggio… la deformazione, e fraintendimento consolante, del frusciare dell’acqua nel fiume, e il soffio del vento, quasi a dar suono a un flauto colloquiale… la casa (salvezza) e la morte (destino ampiamente prevedibile) in un canto e controcanto drammatici, nelle emozioni senza limite, pur nella stanchezza infinita, dell’anima e del corpo… un’ombra che sembra voce, quella di un fantasma? Di un altro che cade?... e l’arma, così pesante eppur amica, essa pure ora croce, allusione confortante, quando sosta ritta nel ghiaccio a te accanto… Quel delicatissimo, amante sussurro a non destare quegli alpini abbandonati nella neve, inerti e interamente indifesi, come bambini nel sonno… e l’ultimo spaventoso equivoco, quei ragazzi, e padri di famiglia, e instancabili conduttori di mulo, e valorosi ufficiali… a cader giù, crudamente, spietatamente, quasi angeli essi stessi, bianchi angeli purificati dalla morte immeritata, a regalare una parvenza di protezione, una carezza ultima agli altri come loro, nelle mille fosse, in attesa….

                                  
(1) “L'ultima battaglia della nostra ritirata di Russia, la battaglia della disperazione e della salvezza per sfondare lo sbarramento sovietico a Nikolajewka, iniziò all'una di notte del 26 gennaio 1943” (Nuto Revelli, La Stampa, 23 gennaio 1963).