Torna alla pagina principale di Marmoléda

MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Novembre - Dicembre  2019 - Anno 21 - N. 2-3 (81)

 

 

La grande paura

di Enrico Pagnin

 

E così festeggiamo i settant’anni di attività.

Io sono entrato in coro come allievo quarant’anni fa. E appartengo perciò agli anziani. E anziano vuol dire tanti ricordi. Alcuni indimenticabili.

Tranquilli: non ne farò l’elenco. Solo uno (ormai siamo in pochi a condividerlo) merita di essere citato perché, a livello emozionale, credo sia stato di una tale intensità mai più eguagliata negli anni successivi.

Si tratta della nostra partecipazione, nel gennaio dell’84, alla trasmissione televisiva “Domenica in”, a quel tempo condotta da Pippo Baudo. Trasmissione che allora, non essendo ancora del tutto decollate le TV commerciali, faceva in certi momenti quattordici milioni spettatori.

Sede storica della RAI in Via Teulada a Roma, svolgimento rigidamente programmato, eravamo là il sabato precedente per provare la collocazione, cosa rispondere al conduttore, prova microfoni e prova dell’esecuzione. Erano previsti due nostri interventi: all’apertura della trasmissione e alla ripresa dopo la pagina sportiva.

A dire il vero, il regista voleva che cantassimo in playback, come del resto facevano i vari cantanti che partecipavano alla trasmissione. Ma il nostro maestro Lucio Finco impose che eseguissimo dal vivo.

Lunga la serie di momenti molto simpatici come, ad esempio, il capitare per sbaglio nello studio del colonnello Bernacca, a quel tempo unico “re” delle previsioni del tempo, o in quello del giornalista sportivo Giampaolo Valenti, attesissimo dai tifosi italiani per essere aggiornati sulle partite di calcio. La condivisione di stanzino col Mago Alexander, in quegli anni conosciutissimo. Lo stupore divertito dei banconieri del bar interno, quando chiedevamo un bicchiere di vino, possibilmente prosecco.

(Personalmente, ricordo di aver bevuto un caffè spalla a spalla con l’attore Vittorio Gassman).

Lo studio era piuttosto grande, col pubblico, luminosissimo con lampade da tutte le parti. Le telecamere e i microfoni, detti “giraffe” perché calavano dall’alto e in televisione non si vedono, erano manovrati in piattaforme mosse elettricamente da operatori di straordinaria abilità.

Quando è stato il nostro turno e le luci dello studio si sono abbassate, mentre potenti fari illuminavano le nostre figure e i nostri volti, la paura ci ha invaso (ricordo le labbra e le mani tremanti del maestro). In quei casi, la tentazione di aspettare che sia qualche compagno a prendersi la responsabilità di partire e tu agganciarti, è grande. Ma quando nei grandi schermi intorno, che mostrano ciò che i telespettatori vedono, noti la carrellata di volti e il tuo viso in primo piano, sai che non puoi fingere di cantare o entrare in ritardo. Cerchi anche di mostrarti tranquillo e professionale, anche se a casa i tuoi, guardandoti così da vicino, capiranno tutto…

Siamo stati ancora in RAI, a Milano, parecchi anni dopo. Ma era cambiata l’atmosfera. C’era più spontaneità e improvvisazione. Non quell’aria di esasperata efficienza che si respirava a Roma e che ti contagiava. A Roma, l’idea di commettere degli errori davanti a milioni di spettatori ti paralizzava.

Ho descritto una sensazione personale. Ma era palpabile la stessa tensione (e paura) anche negli altri. Per non parlare di Lucio, il maestro, che “ci metteva la faccia” più di tutti.

Penso al nostro compianto corista “Nane Barche Rote” che, nel silenzio assoluto dello studio, apriva il secondo nostro intervento con il grido “E mi me ne so ‘ndao”, da solo, perché solo dopo partiva l’accompagnamento.

L’ho sempre ammirato per questo.

Festeggiamoli questi settant’anni. E niente nostalgie: quella RAI, quei telespettatori e anche quel Coro Marmolada non esistono più.