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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Novembre - Dicembre  2019 - Anno 21 - N. 2-3 (81)

 

 

Quel giorno Bepi era con noi …

 

di Paolo Pietrobon

Poeti e musicisti hanno un dono provvidenziale: possono regalare all’esperienza degli umani il tocco estetico e affettivo che solo può venire da un’anima creativa e da un orizzonte esterno alle tensioni e alle vicissitudini della comune quotidianità. E lo sanno dare disinteressatamente, per la comune condivisione di ciò che è bello e buono, ma anche drammatico, con gli altri. Per questo lambiscono l’universale.

Spesso non ce ne accorgiamo, per tante ragioni, ma altre volte ne siamo avvolti e affascinati, felicemente o empaticamente, soprattutto se il loro tocco leggero, o lo schiaffo cattivo, ci sembrano davvero specchiare gli stessi nostri sentimenti di quelle circostanze, il sorriso o il corruccio dei singoli eventi.

Anche per questo non può non dare tristezza la decisione del Maestro De Marzi – indiscutibile, per affetto e ammirazione prima ancora che per rispetto – di porre fine alla straordinaria vicenda culturale e civile di se stesso e dei ‘suoi’ Crodaioli.

Mi capita di ripensarci in questi giorni, anche avendo presente il vicino festeggiamento dei settant’anni di attività del ‘ mio ’ coro, il Marmolada, e il ribadito rapporto di collaborazione e amicizia tra esso e il prezioso Bepi, e forse più ancora tra il Bepi e Lucio Finco, che non dimentichiamo quale radice e linfa generatrice del Marmolada.

Così egli, con la collaborazione appassionata di Carlo Geminiani per tanti felici testi, seppe e sa cogliere con il canto gli strappi morali e umani della violenza: sulle creature, con quesiti che spesso non hanno risposta ( “ I bambini del mare hanno gli occhi di conchiglia, le scarpine di pezza cucite dalla mamma prima di partire ”, quelli lasciati morire sul ‘ mare nostrum ’ per la sola colpa di cercare salvezza dalla guerra e dalla tragedia della fame; o quella Maria che vale la maledizione gettata sui tanti assassini di donne che anneriscono questo nostro tempo, lei straziata e abbandonata sulla neve sulla strada di casa, quando solo la gente di contrada potrà affidarla pietosamente alle braccia della mamma; o la solitaria borgata atterrita dal fuoco che divora il suo bosco e la fatica di chiamare tutti a metterci una mano, “ no basta le campane, questa zé terra dura, qua no ghe zé fontane … no ste ciamar la zente, quando no i vol sentir no se pol fare niente”) e sulla quotidiana sopravvivenza ( il soldatino al ritorno dalla guerra, sconvolto dalla guerra dei ‘grandi’, oltreché – ma fu assai spesso conseguenza irresistibile - defraudato da quella dei ‘piccoli’ (la fragilità di chi rimane, anche una moglie innamorata, “ A tuti la ghe conta che l’è senza marìo, perché l’è andà con Dio sul fronte a guerreggiar ….”); o l’oseléto che non sa sfuggire alla canna di una famelica doppietta; o l’acqua, matrice e garanzia per noi tutti di vita, ormai morta …).

Così ancora chiamando a soccorso la poesia, quante volte col volto di donna ( sul Civetta, dove Manuela per un’irresistibile passione spinge le braccia ad afferrare il cielo, finché “ da le torri, come un organo, ariva ‘na melodia, l’è ‘l vento che la sona, e la fa indormentar”; a Caracoi Agoin , due passi da Alleghe, dove io pure mi rividi montanaro di contrada in un silenzio che sapeva di solitudine e di un tempo fuggitivo “ torno la fontana, dove i sassi sa le storie, se ga perso le memorie che racconta la contrà. No se ride, no se canta, no se fa filò la sera, no vien più la primavera … solo i veci zé restà…”; accanto a Maranina,“ la più bella ragazza della valle, che s'innamora del pastore, d’un amore grande che non è visto di buon'occhio dal padre di lei, che è un signorotto  e lo contrasta. Lei però fuggirà sui monti col suo innamorato sul sentiero salendo passa tra due rocce dette "Porte de Marana", dove si dice siano rimasti i due innamorati”; o all’apparire, alto ancora e lontano, del nostro bianco rifugio, “ na’ casa, lassù, en grande fiore bianco sbocià de primavera, profumà d’amore”, magari di una Làila, suggestione di una felice giornata sui monti destinata a far luce nelle grigie giornate del piano.

Così accanto ai fantasmi disumanati di una guerra sempre insulsa e crudele ( sul Golico, “sotto la neve ‘na preghiera prima di morir … se la Julia non fesse ritorno” … con il soldatino a chiedere alla Madonna una mano protettrice sulla mamma; o nella steppa ghiacciata della ritirata dal suolo russo, con “ Joska, pèle di bombasa, dei Alpin la tenera morosa, mamma, sorella … Joska la rossa, amor, rosa spanìa … ‘ salta la mura, Joska, bala co mi … fin che la dura ’!; qui ancora, forse la notte prima dell’ultima disperata spallata che salvasse quelle misere vite di soldati, “ a illuminar la neve neppure s’alza l’ombra di una voce, lo zaino è divenuto un peso greve … or l’arma s’è mutata in croce … son mille e mille croci degli alpini … cantate piano, non li disturbate, ora dormono il sonno dei bambini”; e infine Nikolajewka, “ la ‘sacca’ dell’ultima speranza di sopravvivenza, la tragedia di un popolo di alpini accerchiato e quasi annientato dalle atroci sofferenze di una guerra idiota e mal governata, inchiodati dal ghiaccio dell’inverno russo alla fame e alla dissoluzione per freddo, azzannati passo su passo del Calvario di una disperata fuga dalla controffensiva russa che non poteva distinguere tra quegli uomini d’onore e chi li aveva scaraventati in un’aggressione perversa, un salto nel vuoto oltre il quale potesse avverarsi il sogno della sopravvivenza, del ritorno alla vita...”. O, come in Nokinà, a un passo dalla follia, in chi è calpestato, destinato alla cancellazione -  ma nella totale abiezione di chi calpesta e pretende annullare il proprio simile -  se madri ridotte all’ombra di se stesse nei lager nazisti sono costrette a sussurrare una ninnananna di consolazione, poi urlata con disperazione, al proprio bimbo che accompagnano – follìa indotta? pietà oltre l’umana percezione di un ‘ inferno ’? – alle camere a gas; o in una follia totale, mista a un’ironia residua in chi va a morire, quasi l’ultimo sberleffo al nemico distruttore e alle sue armi letali in La bomba imbriaga, dove lo spasimo per una brutalità illimitata, quella sofferenza troppo grande, addirittura la rassegnazione a una morte liberatoria si impone, fino a stipulare un’inconscia intesa con quella bomba che colpirà senza ragione né discriminazione, liberando quadri grotteschi e funerei di banchetto, “ silenzio sul fronte, qualcun ne prepara un bel funerale, con banda e con bara. Silenzio, ecco il fis-cio: l’ariva, la viene, doman sarà festa, vestive par bene … Sorèla de fogo, perecime i goti che vegno anca mi … che spolpo imbriago mi voio morir …).

 

Così ogni volta che ci lasciava un amico, pur se caduto nel pieno del sogno prediletto, o gli amici non mancavano di donarci la loro solidarietà quando un lutto comunque ci colpiva ( “ Signora della neve, copri col bianco soffice mantello il nostro amico, il nostro fratello … lascialo andare per le tue montagne … “, quando salutai Loris … Gigio … Renzo … e salutammo tanti nostri amici; “ E canterà più alto delle stelle … e suonerà con l’arpa della luna la cetra all’infinito …”, quando furono Lucio, Luciano, Ennio, Beppe, e tanti altri, a smettere di cantare con noi, o il giorno in cui sentii alle mie spalle il ‘mio’ coro, e quelle cante, accompagnare l’ultimo viaggio di mio figlio …

 

Senza che sia smarrito il giusto spirito ‘ popolare ’ di cui questa nostra cultura si nutre, le necessarie facezie e le ironie di una condivisione schietta del vissuto sociale, nel lavoro, all’osteria, al tepore delle stalle, di una salutare antropologia insomma ( quando “ Teresina la fa su ‘na cagnara in leto e no la vole né brodo né pan perché xé inamorà …” e alla fine “ sposa un siciliano che sta davanti al mare, sposa chi le pare …” ; o la giovane montanara – ne ‘La cuna dondola’ -  mostra orgogliosa il suo neonato ma, dato e noto il  contesto familiare ( e non solo )  si raccomanda ‘ autorevolmente’: “ te racomando, no verzer la boca, te me imbriaghi il putilo col fia’ …”; e ‘Nane Tartaia’,’ Mama Piero me toca’, ‘Balla Marietta’, ‘La Brasolada’, ‘San Matìo’ ….

 

E chissà quant’altro si potrebbe ricordare – e un po’ rimpiangere – dell’immensa vibrazione affettiva, del godimento musicale, delle atmosfere e dei paesaggi, umani e letterari, rappresentati nelle sue canzoni, nei suoi libri, del suo schietto e impavido civismo, spesso contro il richiamo ‘ a non esagerare ’ di tanti benpensanti, fino all’attuale – ma non nuova – constatazione del fatto che uno spirito libero e innamorato del bello e del giusto non riesce più a cantare per quest’Italia.

Con un’unica annotazione critica da parte mia, che non vuole essere ingerenza nelle motivazioni obiettivamente pesanti addotte da Bepi per informare della sua decisione. Annotazione che si riferisce al fatto che in quest’Italia – come in tutte le comunità critiche e contraddittorie avviene a chi mal sopporta volgarità e prepotenze ammannite da certi poteri – la voce e il canto, anche la reprimenda moralmente acuta, del Maestro De Marzi, del nostro Bepi, sarebbe tanto più preziosa, accolta con emozione vera e attenzione etica, felicità, sì, proprio felicità, come personalmente mi succede quando mi trattengo ad ascoltarlo e a leggerlo.

Chissà quanti di noi possono rivivere con immutata emozione i passaggi della personale esperienza legati strettamente a una sua canzone, a una sua visione, a un suo rapimento sentimentale che da allora è diventato proiezione e identificazione in ciascuno.

Quindi grazie, caro Bepi, grazie per tutto ciò e un abbraccio forte e sincero.