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MARMOLÉDA - Periodico dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Marzo 2021 - Anno 23 - N.1 (86)

 

 

Il canto corale fa identità?

di Paolo Pietrobon

Stavolta niente analisi tecniche o linguistiche. Vorrei raccontare il "perché" e il "da dove"della mia emozione nel cantare in coro e nell’ascoltare il canto di un coro.

Dovrei cominciare dalla Chiesa di San Silvestro, a Venezia. I miei gestivano una latteria a Rialto e allora si lavorava anche alla domenica. Quindi il tempo libero, insieme o dopo l’aiuto a papà nella bottega, lo trascorrevo in parrocchia, come tantissimi ragazzi allora. Ed ero chierichetto, ammesso perciò e particolarmente all’altare e alla sacralità delle funzioni. Nelle quali il canto era parte centrale: intonazione del celebrante e accompagnamento dei fedeli. Il Te deum di ringraziamento, o il Tantum ergo dell’adorazione o il Salve regina dell’omaggio alla Vergine o il Credo della confermazione mi avvolgevano nelle loro tonalità solenni  e misteriose, nei profumi esotici degli incensi, mettevano in partecipe agitazione la mia risposta emotiva. Tuttora – sebbene io non sia credente – vanno a scuotere nel mio profondo un qualcosa che non saprei definire “tecnicamente”, ma che ha a che fare con l’esigenza universale di armonia, forse l’adesione interiore all’appartenenza ad un popolo in cammino, forse il richiamo dell’ unicum cosmico e spirituale cui tutti, scienziati compresi, prestano attenzione e studio.

E poi la Chiesa di S. Andrea, a Campocroce di Mirano, durante le vacanze dai nonni nella grande casa contadina: “Posso con facilità risentire le esecuzioni delle sontuose musiche di Lorenzo Perosi, rivedo i visi tesi e orgogliosi dei cantori, consci di un ruolo principale per la loro comunità in un momento per essa di fondamentale riconoscimento identitario e sociale. Soprattutto bassi e tenori avevano negli occhi la luce di chi sostiene un’impresa difficile, i primi per la vibrante emozione del ‘pedale’, vale a dire del costituire la bardatura di appoggio con sonorità profonde per gli assetti più leggeri e morbidi delle melodie, gli altri per la sensazione provata e gratificante di illuminare e condurre negli effetti più lirici l’adesione psicologica e recitativa dell’assemblea riunita. Ritrovo poi quel particolare piacere di appartenere al rito comunitario in posizione di evidenza, accanto all’altar maggiore, che accompagnerà per gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza il mio tempo di formazione e crescita culturale “ (1).

Ma, più "intrigante", anche oggi, l’incontro – uno dei pochi – con il nonno materno a Caltana, tre passi da Campocroce,: “ Credo di dovere anche a lui la mia passione decisa per la musica corale e operistica: non dimenticherò mai il suo modo di ascoltarla con i poveri mezzi del tempo, seduto su uno sgabello in un angolo della cucina, gambe accavallate e braccia conserte, assorto e quasi distante dal generale affaccendarsi, ma improvvisamente in piedi, anche sullo sgabello, a regolare la manopola della grossa radio d’epoca per coglierne meglio, quasi a rubargliele, le sonorità tanto amate e piangere di commozione. C’era un’aria operistica che gli produceva tale identificazione e che trattengo, limpida e presentissima, ‘La Vergine degli angeli’, il capolavoro romantico della verdiana ‘Forza del desti no’ “(2).

E al ritorno a scuola, inizi d’ottobre, all’Istituto Cavanis, nella suggestiva S. Agnese, in più di duecento ragazzotti a "gridare", non sempre con "puntuale devozione" ma comunque, almeno in me, con significativa risonanza di quegli accenti poderosi e – si era tra  gli anni ’50 e ’60 – "trionfanti"  un fitto repertorio liturgico, dal "pugnace"  Noi vogliam Dio al mistico struggente O caput cruentatum, che avrei ritrovato, tanti anni dopo, nella splendida esecuzione del Coro Tre Pini del Maestro Gianni Malatesta.

Finché strinsi amicizia con tre compagni del Ginnasio-Liceo, tra i quali Dedo volle farmi conoscere la sua casa a Santa Maria Formosa e in quella casa scoprire il canto, decisivo per quanto riguarda la coralità popolare non liturgica, quello del Coro SAT di Trento. L’impatto fu netto, travolgente per un giovanotto che nulla sapeva di quello stile e di quelle narrazioni . Fui anche invitato un’estate in vacanza, a Saviner di Caprile e da allora il nesso montagna-borgata-canto d’insieme-intimità e interiorità sociale delle piccole comunità rurali diventò per me riferimento e parametro sociale che andava oltre il canto, ma per quel canto avviava una personale interpretazione di una storia di popolo e, nel popolo, di una collocazione anche mia, psicologica e storica. Non meno di così, anche oggi.

Passano gli anni e, a una festicciola tra colleghi di scuola e amici mestrini conosco – viso accogliente per me che poco bazzicavo quegli intrattenimenti -  altro gruppo di amici, tra i quali avrei incontrato Gigio Visentin, sincero e attento amico, poco cerimoniale pure lui, ma al primo istante nettamente affidabile e simpatico. Di cosa parlare noi lì? Di montagna, e del canto corale. Ben presto iniziò la mia esperienza di quel canto.

A cappella ovviamente, in bilico tra il popolare e il polifonico, cinque elementi in tutto nel garage di casa mia, a Marghera, serranda abbassata. Primo canto fu Inno al Trentino, ma poi, golosamente, apprezzammo il più possibile della SAT e successivamente, con la sensazione di una navigazione nuova in un mare affascinante, De Marzi, Bon, Gervasi …. Eravamo felici di ciò che andavamo scoprendo insieme, diventavamo un nucleo sodo di amici forniti finalmente di un obiettivo di qualità che ci univa e distingueva.

Il percorso della ricerca identitaria, di gusti culturali e di forma sociale, prendeva forza e spalancava generosamente altro e stupefacente modo di vivere l’estetica, delle cose e di noi stessi: quella delle grandi vicende e strutture della trasformazione cosmica, la montagna simbolicamente, e della scelta di analoga modalità dell’essere noi stessi elemento e vicenda in tale dimensione. Sincerità, complicità, non conformismo, semplicità, "guardare il fondo e in alto", dentro e fuori di noi.

Fu così che diventammo, tra serietà d’impostazione e una certa goliardia di contesto, un “coretto autonomo”, ma niente male, all’interno del CAI che frequentavamo a Mestre: “C’era il piccolo bar riservato ai soci, in una saletta decentrata, un salottino intimo e burlone nel quale qualche bicchiere di vino, magari accompagnato da croccanti tocchetti di pan biscotto, riscaldava l’ambiente e gli umani. Non mancava mai, anfitrione e sommelier imprescindibile, Mano: volto dalla sbozzatura robusta, mobilissimo per le battute e le parafrasi memorabili, sugli eventi e sui personaggi di quel convivio, capigliatura riccia a incorniciare l’imprevedibile canzonatura di quanto fosse esageratamente serioso nella vita associativa, vocione stentoreo interrotto da sonori  e, quando necessario, graffianti incisi. Che piovevano sulla rumorosa brigata quasi fossero comiche direttive, da capocomico di quel teatro buffo. Epocale, vista la propensione della compagnia, nel più gioviale spirito epicureo, ad accompagnare la scenografia con succose libagioni e la goduta esagerazione nell’uso di simboli che imprimessero nell’ambiente un irridente mantello identitario, l’uscita frequente del nostro Mano, quasi proclama profetico: « E chi che no ghe piase el vin, dio ghe cava anca l’acqua! ». Anche un piccolo coro alpino andava formandosi, intorno al tavolo d’angolo, con i suoi protagonisti ad ammiccare generosamente, tra loro e verso chi s’avvicinava per ascoltare, in un clima complice e prodigo di sana eccitazione “ (3).

Arrivammo ad essere in sedici, convinti di cantare dignitosamente ma prima di tutto felici di farlo e, perché no, di farci ascoltare. Senza particolari formalità, ovunque, e principalmente in montagna, magari nei rifugi, sotto qualche portico di Venezia, sulla cima del Peralba: “ Vi salimmo per la facile via ferrata, lasciandoci attorno il corteo tacito delle montagne sorelle, fino alla vetta. Se non che, tocco che avvicinò il tutto alla perfezione, tutti in piedi sulla generosa cresta nevosa della cima, a cantare: il nostro piccolo coro, le nostre cante intrise di popolani sentimenti - la guerra cattiva, l’amore dopo il duro lavoro, le leggende delle borgate in festa o nel dolore, la malìa di un mondo pulito e operoso, in pace con se stesso e nelle braccia accoglienti delle grandi alture - e le voci armoniose, ribelli a ogni sciatteria o malinteso canto da osteria. C’era dell’idealismo in quelle espressioni, passava nella luce dei nostri occhi, orgogliosi di quella dimensione di antropologico equilibrio, ci confermava visibilmente in un’amicizia che era al tempo stesso progressione affettiva e culturale importante e percorso adiacente, contestuale, garante  del nostro essere poi cittadini "per bene", segmenti positivi di una città-mondo augurabile e da perseguire intanto nei microcosmi di competenza ” (4). Senza dimenticare le esibizioni nelle trattorie, a fine cena, con i complimenti dei presenti, stupiti per una sorpresa inedita, e le offerte di libagioni provvidenziali: “ bravi tosi… bravi! Cantè che paré un organo, madona! ” …

Mancava l’approccio alla grande coralità classica, ai prìncipi dello spartito, che venne – e mi travolse, senza esagerare – alla Fenice: “devo alla cara Cesira, per quell’avventurosa soirée, una scoperta per me fondamentale: certo le porpore e gli ori del teatro, il fascino dell’orchestra, il carisma ieratico del suo direttore, ma su tutto, per me nativa, inaccessa fin lì, l’armonia michelangiolesca, intimamente biblica, della “ Messa da Requiem“  di Wolfgang Amadeus. Strategico il senso che ebbe per me quell’audizione, il portale della buona musica che mi spalancò, lo strumento interpretativo regalatomi per la fondamentale ricerca del metafisico che distingue l’umano dall’animale, quel crescendo del “ Lacrimosa dies illa ”, nelle quindici note ascendenti scagliate senza respiro a imprimere nel cuore e nella coscienza il vortice emozionale delle creature interpellate per l’ultimo giudizio, la paura dell’abisso e la speranza di cielo, unitamente, una trionfale spettacolarità,”horribilis” potrei dire con antica corrispondenza di parola e sentimento, sublime nella musica senza limite, geniale, di Mozart “ (5).

E finalmente, dopo decenni di appassionata partecipazione ai suoi concerti, venne il momento di coronare questa mia inclinazione con l’ingresso nel Coro Marmolada: emozione forte e pure orgoglio di rappresentarmi ora, agli stessi amici, come corista di un complesso di riconosciuto prestigio. Fino a sentirsi davvero "protagonista" di quella cultura e di quei racconti, un po’ come era avvenuto allorché ebbi la possibilità di gestire il Rifugio Galassi e mi sentii appunto non solo amante della montagna, tanto meno "turista", ma pezzo vero di quel contesto così amato, del lavoro e delle relazioni che esso prevedeva e regalava a chi nella montagna vedeva il senso e la praticabilità di un modo prezioso di vivere, agire e pensare.

Ultima enunciazione in questa mia rivisitazione, forse la più misteriosa ed intrigante, anche dal punto di vista dell’apice dell’armonia, di vita e di storia, che a me pare di intravedere – forse cercare – nelle profondità e nelle scintille timbriche della grande coralità. E’ il caso di certe esecuzioni del Coro dei Cosacchi del Don, diretto da  Serge Jaroff: un oceano scuro ma vibrante di annotazioni, profonde fino a turbare e commuovere, capaci di suggerire gli abissi, o i limiti, dell’esistente, della storia russa senz’altro e del suo popolo intriso di profetismo, e in quell’abisso singole acutissime laminazioni sonore, inimmaginabili tradizionalmente in voci maschili, a percorrere disperatamente, o orgogliosamente, quella densità avvolgente: forse a cercare un approdo? Un’intima connessione? La ragione ultima di uno sforzo organico e salvifico? O la contemplazione del manto universale di una divinità protettrice e benevola? O infine, per la terra antica cui quel canto guarda, l’anelito insuperato, nonostante il terribile sussulto rivoluzionario vissuto, alla pace e alla comprensione, nel grembo della grande madre Russia. Confesso una commozione vera nel suo ascolto, per me un apice della mia gratificazione allorché, magari senza altre presenze, mi accingo all’ascolto, e alla meditazione.

 

Note

Le parti in corsivo sono tratte da libri dell’autore, rispettivamente:

·       1 e 2 da “ La casa dei nonni ”, Cleup 2009

·       3 e 4 da “ Prateria e rifugio “, Cleup 2019

·       5 da “ Latteria popolare ”, Cleup 2013