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Marmoléda

MARMOLÉDA - Notiziario dell'Associazione Culturale Coro Marmolada di Venezia

Maggio 2014 - Anno 16 -n.2 (60)

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La vera guerra nella documentazione (anche canora) non ufficiale

di Sergio Piovesan

 

Cento anni fa iniziava quella che fu chiamata "Prima Guerra Mondiale", guerra  che Benedetto XV, nel 1917, definì "inutile strage".

Oggi, nel ricordare quell'evento durato oltre quattro anni (per l'Italia poco più di tre), molti storici e studiosi si servono di documentazione che allora, e neppure negli anni successivi, non poteva essere presa in considerazione per non essere dichiarati disfattisti, antipatrioti e pure traditori.

Quella fu, in effetti,  una guerra lunga, estenuante, crudele, sterminatrice, faticosa; una visione, quindi, ben lontana da quella che offriva in quegli anni la propaganda bellica.

Documentazione di vario genere, a cominciare dalle lettere dal fronte, quelle che riuscivano a superare la censura, ma anche rapporti giornalistici, che magari non venivano pubblicati.

Un'altra fonte è data dalla fotografia, che già aveva iniziato ad apparire durante la guerra di Crimea, ma che, nel '900, poteva fruire di apparecchiature piùpiccole e maneggevoli. Ci sono le immagini "ufficiali", scattate dagli arruolati nel "Servizio fotografico dell'Esercito Italiano" (SFEI), ma anche quelle "private", scattate cioè da militari al fronte, per lo più ufficiali, che restarono fra gli archivi privati e, per quanto riguarda l'Italia, videro la luce soprattutto dopo la seconda guerra mondiale in quanto il regime fascista si reggeva anche sul patriottismo e sugli episodi di "eroismo" che, molto spesso, venivano creati e ingigantiti. Per questo scritti e immagini di altro intendimento non trovavano spazio. Anche negli altri stati impegnati nel conflitto la situazione non era molto diversa.

Durante la permanenza al fronte, con la dura esperienza della guerra di trincea, nel fango, al gelo e con i compagni che morivano accanto, qualche combattente improvvisava dei versi e spesso li univa ad una musica, a volte già conosciuta, ma spesso nuova; nacquero così i canti di guerra, ma anche, in questo caso, vi furono canti che divennero subito famosi e canti che, invece, restarono nell'oblio perché considerati "disfattisti", canti che potevano conseguenze nefaste soprattutto per chi si azzardasse a cantarli.

Non tutti i canti nacquero in trincea e, ad esempio, "La leggenda del Piave" ([1]) e "Stelutis alpinis", diventarono subito famosi anche se di genere diverso.

La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano caratterizzata.

In "Stelutis alpinis", invece, appare sì la sofferenza e la morte, ma il sentimento dell'amore che va oltre la morte prevale, trasformando la canzone quasi in una preghiera. 

Il vasto e conosciuto repertorio dei canti di guerra, in particolare i canti degli alpini, propone, nella quasi totalità, brani che, pur raccontando le sofferenze e le crudeltà della guerra, quasi sempre solo di passaggio, concludono tutti inneggiando alla vittoria, al valore ed alla nostalgia degli affetti lasciati a casa.

Ne citeremo alcuni.

"Dove sei stato mio bell'alpino"

Il testo, in più versioni perché adattato da reparti diversi, ricorda vari luoghi dove si è combattuto più aspramente e dove, quindi, il combattente ha avuto paura tanto da impallidire dalla paura. Ma la canzone conclude in maniera gioiosa con la famosa rassicurazione della morosa "... ma i tuoi colori ritorneranno questa sera a far l'amore".

"Bombardano Cortina"

Qui gli alpini se la prendono con i nemici (chissà perché li chiama "traditori"; forse solo per far rima con "fiori") che dicono di gettare fiori e, invece sono bombe. Il finale " ... giunti sulla Tofana / su quella vetta la baionetta, / la baionetta scintillerà." è, ovviamente, trionfale.

"Era una notte che pioveva"

È la vita al fronte quando il tempo inclemente rende tutto più difficile sia durante il periodo di guardia, ma anche nel riposo sotto la tenda; solo nel momento del sonno è il sogno, ovviamente con la sua bella, a far sembrare la vita più accettabile.

"Il testamento del capitano"

Questo è un canto  funebre cinquecentesco dal titolo "Il testamento spirituale del Marchese di Saluzzo". Michele Antonio, undicesimo marchese di Saluzzo, capitano generale delle armi francesi nel reame di Napoli, mortalmente ferito da un obice durante la difesa della fortezza di Aversa assediata dalla truppe borboniche, nel 1528, esprime le sue ultime volontà ai soldati riuniti attorno al letto di morte. È una fra le gemme più interessanti del patrimonio epico-lirico italiano, ereditata in seguito dalla tradizione alpina che, all'epoca della 1a Guerra Mondiale (1918), rese popolarissimo il canto. La versione alpina identifica nella "Patria" la destinataria del primo pezzo seguita dal "Battaglione", dalla "Mamma", dalla "Bella" e dalle "Montagne". Un testo che può essere anche tragico, ma molto edulcorato.

Poi citiamo quelle che s'intitolano con il nome di alcuni monti: Monte Canino, Monte Cauriol e Monte Nero.   Anche questi sono canti  che si riferiscono a particolari luoghi del fronte alpino, luoghi in cui molti furono i caduti ed i testi lo ricordano, ma poi il finale è di speranza (" ... se avete sete la tazza alla mano / che ci rinfresca la neve ci sarà.)nel primo , allegro nel secondo ( " ... Il suo sangue l'ha dato all'Italia, / il suo spirto ai fiaschi del vin! ), e incitamento all'eroismo nell'ultimo ("... fatti coraggio alpino bello, ché l'onore sarà per te").

 

Ma altri canti, considerati disfattisti, come indicato più sopra, sono stati creati da chi, inviato a combattere, pur non sottraendosi vigliaccamente, osservava quello che accadeva: sofferenze, feriti e morti in gran numero anche per conquistare pochi metri di terra, magari solo per l'ostinazione di qualche comandante. Questi canti furono nell'oblio per lungo tempo anche e soprattutto perché venivano considerati "offensivi" verso i combattenti, verso i comandanti e verso il regime che prese il potere negli anni successivi e che sulla vittoria di quella guerra fondava parte della sua ideologia.

Solo negli anni '50 e '60 dello scorso secolo furono "riscoperti" e portati sulle scene da alcuni gruppi di cantanti che facevano riferimento a ideali socialisti ed anche anarchici.

Uno di questi canti, il più famoso, è "O Gorizia tu sei maledetta" (vedi testo sopra) (vedi spartito) (ascolta la musica) che si collega ad evento di 13 giorni (5.8.1916-17.8.196) durante i quali morirono circa 50.000 soldati e 1759 ufficiali  caduti di parte italiana, 40.000 e 862 ufficiali per gli austriaci, canto di protesta che avrebbe inquietato ancora per almeno mezzo secolo la cattiva coscienza di graduati e Stati Maggiori. Infatti, riproposto quasi mezzo secolo più tardi, nel 1964, a Spoleto in occasione del "Festival dei Due Mondi" da un agguerrito gruppo di musicologi

 e folksingers (Roberto Leydi, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, Michele L. Straniero) innescò una vivace polemica: alcuni ufficiali presenti in sala si ritennero offesi dai duri giudizi presenti nel testo, si alzarono rumorosamente e uscirono al grido di "viva gli ufficiali!" (Per ulteriori informazioni su questo episodio clicca qui)

 

"Fuoco e mitragliatrici" (vedi testo, linea melodica e ascolta) si riferisce alla quinta battaglia dell'Isonzo (estate 1915). L'aria è quella di una canzonetta napoletana di Libero Bovio ed Ernesto De Curtis, stampata nel 1913 col titolo di "Sona chitarra".

Il Monte Nero fu espugnato il 16 giugno 1915 dalle truppe alpine del IV corpo d'armata; il monte Cappuccio fu teatro di aspri

 combattimenti subito dopo l'inizio del secondo attacco agli sbarramenti dell'alto Cadore, il 10 agosto dello stesso anno. La "trincea di raggi" o "trincea di razzi" fu teatro di sanguinosi scontri nel dicembre 1915. Molte mischie accanite si ebbero in quel periodo proprio per conquistare i trinceramenti disseminati a sud di Gorizia, trinceramenti che divennero tristemente famosi, come la "trincea delle frasche" e quella dei razzi o quella dei sassi rossi. In questi combattimenti i fanti sardi della Brigata Sassari, estrema ala sinistra del XIII Corpo d'armata, nel pomeriggio del 15 dicembre irrompevano nella trincea delle frasche ed attaccavano alla baionetta i difensori, parte uccidendoli, parte catturandoli. All'alba del giorno seguente penetravano nella trincea dei razzi, sorprendendone il presidio nel sonno e costringendolo alla resa.

Tutti i successivi contrattacchi avversari venivano prontamente contenuti e spezzati. Il generale Gabriele Berardi (medaglia d'oro), comandante dell'eroica brigata, lasciava gloriosamente la vita sulle posizioni conquistate."
Insieme al Berardi, per la conquista della cosiddetta Trincea dei razzi, trovarono la morte circa due terzi della brigata. 

 

 

 

 


 


[1] La leggenda del Piave, conosciuta anche come la canzone del Piave, (inno nazionale italiano dal 1943 al 1946) è una delle più celebri canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario)